«Io, Shuja, ex condannato a morte»

Con quale coraggio girare il mondo e raccontare la propria sofferenza a un passo dalla morte? Con quale forza parlare ai giovani della creazione di una società pacifica e più giusta dopo 5 anni di ingiusta prigionia? Con quale spirito combattere ancora per i diritti umani e la giustizia sociale dopo essere stato condannato a morte dal proprio Stato per via di un delitto mai commesso?

“Per dimostrare al mondo che dal ciclo della violenza si può uscire adoperando metodi non violenti, che la vendetta è solo un perpetuarsi dell’ ingiustizia e non la strada giusta per riscattare gli errori del passato”. Questa la risposta di Shuja Graham, invitato speciale che ha incontrato gli studenti delle facoltà di Lettere e di Lingue di Catania, come sta facendo in questi giorni nelle scuole e nelle università della nostra città grazie all’iniziativa “Cities for life ‘07”, che vede impegnate più di 300 città in tutto il mondo contro la pena di morte, e grazie alla comunità di S. Egidio che ha permesso e agevolato la realizzazione di questo evento.

Al di là del condannato a morte, riconosciuto innocente dopo 5 anni di prigionia nel “braccio della morte” della California, Shuja è un uomo con le lacrime agli occhi e col cuore in mano che parla ad un’assemblea solennemente silenziosa, rispettosa di una confessione così intimamente profonda come la vicinanza alla morte, la consapevolezza di conoscerne il giorno, l’ora e la modalità d’esecuzione, la paura del futuro e di un presente che scivolando inesorabilmente nel passato si avvicina sempre di più alla parola ‘fine’. La testimonianza di Shuja non è infatti un’astratta disquisizione sulle implicazioni civili, etiche e morali di una scelta come la pena di morte da parte di uno Stato,  ma il racconto di una vita concreta, senza possibilità di riscatto, vissuta fin dai primi anni dell’adolescenza a stretto contatto con la microcriminalità delle gang giovanili dei sobborghi di Los Angeles, operanti specialmente nelle zone economicamente meno abbienti.

“Pensa che se le condizioni economiche della sua famiglia fossero state migliori, e se lei avesse avuto una seconda scelta, la sua vita sarebbe stata diversa?” chiede uno studente. “Ho visto per la prima volta l’uccisione di una persona all’età di 12 anni. Era la sorella del mio migliore amico. Io conoscevo entrambe le famiglie, eppure ero nella gang, ero profondamente inserito in quella realtà. Era il mio mondo e non potevo decidere di estraniarmene o rifiutarlo. Quando ero libero e stavo con loro mi sentivo forte. Solo in prigione ho riflettuto tanto e ho scoperto di essere un debole in realtà. Solo in catene ho capito che la vera forza consiste nel rispetto della persona umana e della sua dignità”.

Una fedina penale per niente pulita quindi per Shuja, che già all’età di 18 anni conosceva la prigione, ma in ogni caso nessuna giustificante valida o prova di colpevolezza per la sentenza della Corte Giudiziaria della California che, nel 1976, lo condanna a morire. “Ricordo quel momento come se fosse  ieri. Ricordo esattamente cosa pensai. Che la mia vita era finita”. Questo risponde Shuja quando gli viene chiesto cosa a avesse provato al sentire la parola “guilty” su di lui, lui che dell’omicidio della guardia giudiziaria nella prigione in cui si trovava, non sapeva nulla. “Quando mi torturavano – dice – per estorcermi le informazioni che volevano, per farmi dire una verità che non era la mia, avrei potuto accusare qualcun altro, per far escludere l’ipotesi del mio coinvolgimento. Molti l’hanno fatto. Ma a questo pensiero ho subito risposto tra me e me: «prima di fare una cosa del genere dovrei morire»”.

Viene quindi spontaneo chiedersi da dove un uomo come tutti noi, abbia preso tanta forza, tanto coraggio, come la sua speranza non si sia spenta, come il desiderio di vendetta non abbia prevalso su una realtà profondamente ingiusta e ingiustificata, il cui corso cambia solo 5 anni dopo. Quando viene finalmente riconosciuto innocente. “La mia forza – confessa orgoglioso e, stavolta, sorridente– sono stati dei ragazzi come voi, studenti tra i 17 e i 18 anni che, fermamente convinti della mia innocenza, hanno manifestato e lottato per la mia liberazione“. È forse questo il motivo di tanto affetto nei ringraziamenti di Shuja per il nostro interessamento, del suo trasporto emotivo al sentirci vicini alla sua storia, del suo calore in ogni abbraccio dispensato a chi gli ha chiesto di lui, a chi si è avvicinato per sussurrargli all’orecchio l’ammirazione per il suo coraggio.

“Il messaggio che voglio trasmettervi oggi – conclude – è questo: uscire dal circolo della violenza («cicle of violence» come lui lo definisce) si può. Ma solo e unicamente nel rispetto dei diritti civili e umani si può essere delle persone migliori, e solo essendo delle persone migliori si può costruire una grande Nazione. Io sono con voi e voi siete con me. Insieme possiamo creare un mondo più giusto”. Il viso bagnato dalle lacrime, la voce rotta dalla commozione, lo sguardo orgoglioso della moglie di Shuja, anche lei presente alla conferenza. È lei a parlare per ultima, rivolgendo ancora un pensiero alle famiglie dei condannati a morte, al dolore di una madre davanti all’esecuzione del proprio figlio. Eppure, nonostante il dolore che sembrano aver sopportato i suoi occhi, questa donna non parla di rabbia né di vendetta, dà invece una risposta all’interrogativo che quest’incontro pone, e cioè “come reagire alla violenza senza adoperarla”. La sua risposta è “il perdono”.
Ed è possibile perdonare davanti al dolore di chi è stato costretto a non poter vedere per anni la luce del sole? È possibile non portare rancore verso chi uccide interiormente ancor prima di uccidere fisicamente?
Evidentemente, non resta da pensare questo: che alla crudeltà umana che si autoconferisce arbitrariamente il potere decisionale di far dipendere dal proprio giudizio la vita e la morte delle persone, è direttamente proporzionale la forza interiore necessaria non solo per sopportarla, ma anche per poterla combattere dopo, fino alla fine e a voce alta, invece di agire tacitamente come usa fare la violenza.
 
(Oggi si terrà una preghiera per i condannati a morte alle 19,30 nella chiesa di S. Maria dell’Ogninella. Sushja sarà presente.)

Valentina L'Episcopo

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