Capita di avere venticinque anni e di studiare giornalismo all’interno di una delle scuole convenzionate e riconosciute dall’Ordine. Capita di pagare profumatamente queste scuole e di farlo pensando che, almeno, diano la possibilità di imparare sul campo, non soltanto grazie alle lezioni ordinarie ma anche grazie agli stage presso redazioni di una certa fama.
Capita che si sia studenti delle scuole di giornalismo e che si sia in procinto di fare lo stage in questo periodo, quando un gran numero di testate ha dichiarato lo stato di crisi e nell’articolo 8 del protocollo di consultazione sindacale allegato al contratto nazionale di lavoro giornalistico si legge che le aziende non possono «procedere all’effettuazione di stages per borsisti allievi nonché ad assunzioni di giornalisti o praticanti; eventuali deroghe per le assunzioni devono essere precedute dalla consultazione tra il direttore e il comitato di redazione».
La deroga è arrivata dall’alto, dall’Ordine dei Giornalisti. Ma l’Fnsi, Federazione nazionale stampa italiana, non l’ha ritenuta valida e svolgere gli stage risulta comunque difficile. Tanto che l’OdG ha stabilito che assisterà giuridicamente gli studenti delle scuole che intendessero avviare azioni legali contro le aziende editoriali che non consentissero il normale svolgimento di stage programmati da tempo.
Cristiano Vella ha venticinque anni, studia alla Scuola Post Laurea in Giornalismo dell’Università di Salerno e un mese fa è andato a Roma per svolgere uno stage alla redazione de “L’Unità”, testata che ha dichiarato lo stato di crisi. Arrivato in redazione con altri tre colleghi, due provenienti da Urbino ed un altro da Salerno, s’è trovato ad affrontare una situazione difficile: impossibilità di firmare articoli, di accedere al programma informatico di produzione del giornale, di imparare. Le colleghe di Urbino hanno gettato la spugna e se ne sono andate, Cristiano e il collega, invece, sono rimasti, finché il comitato di redazione ha ottenuto che l’amministrazione del giornale allontanasse anche loro. Questa storia, Cristiano l’ha raccontata su Facebook. Step1 l’ha contattatato e gli ha chiesto di approfondirla.
Partiamo dall’inizio. Come sei finito a fare lo stage a “L’Unità” nonostante l’azienda abbia dichiarato lo stato di crisi?
«La legge dice che i giornali in crisi non possono prendere stagisti e “L’Unità” è un giornale in crisi. L’Ordine dei Giornalisti, però, interpellato dai direttori delle scuole, ha detto che si sarebbe potuta concedere una deroga, e che quindi anche i giornali in crisi avrebbero potuto aprire agli stage. La Fnsi, il sindacato, ha risposto all’Ordine: “Non avete il potere di derogare un bel niente”. All’Unità, perciò, c’è stato qualcuno che ha creduto che valesse la deroga, ed è stato così che ci siamo arrivati».
Tu e i tuoi colleghi come siete stati accolti? Cito la tua nota: «Carichi di speranza, i primi giorni trascorrono sull’onda dell’entusiasmo», mentre i successivi si trasformeranno in «una sorta di romanzo kafkiano».
«Dal punto di vista personale siamo stati accolti benissimo, con molti redattori si è creato un rapporto di amicizia, con altri in ogni caso ci si confrontava. Altri ancora, come in ogni posto di lavoro, ci ignoravano e basta. Il problema non è da leggere in chiave personale, ma in chiave sindacale».
Non potevate firmare articoli né accedere al programma informatico di produzione del giornale, per via della ferma opposizione del comitato di redazione. Perché?
«Qui c’è il nocciolo della questione. L’Unità è un giornale che, allo stato attuale delle cose, ha problemi ben più gravi degli stage. Lo stagista, però, è uno strumento a costo zero nelle mani delle aziende che, senza regole, potrebbero abusarne. All’Unità ci sono persone che potrebbero perdere il lavoro, dovere del cdr è tutelarli. A questo punto, però, ferma restando la sacrosanta tutela che si deve ai giornalisti a rischio posto, c’è la figura dello stagista che di tutele è completamente priva. Noi siamo arrivati all’Unità per un errore, la legge è dalla parte del cdr (o almeno l’interpretazione che della legge in questione, l’allegato D del contratto, va per la maggiore), ma si pone unicamente una questione di buonsenso: conveniva di più farci la guerra oppure, semplicemente, ammettere l’errore, lasciar passare lo stage facendoci lavorare e poi chiudere agli stagisti fino al termine dello stato di crisi?».
Le tue due colleghe della scuola di Urbino, Giulia Torbidoni e Veronica Ulivieri, hanno lasciato lo stage e hanno scritto una lettera al cdr del giornale e alla Fnsi. Com’è stato accolto il loro messaggio?
«Male, perché è stato affisso nella bacheca in cui vengono messi i comunicati sindacali».
Dopo questa lettera, l’amministrazione ne ha inviata una, a sua volta, a seguito della quale tu e il tuo collega superstite venivate allontanati…
«Sì, e qui contesto la mancanza di buonsenso. Alla fine, sembra più una ripicca che una motivazione sensata. Il mio collega avrebbe dovuto star lì ancora poco più di un mese, io una settimana (ho lo stage diviso)… Cacciare le persone è squallido, a mio avviso, e in questo caso crea problemi. Noi non percepiamo stipendio, anzi, paghiamo profumatamente le scuole, a Roma ci manteniamo pagando affitti senza nessuno che li paghi a nostra insaputa (concedimi la battuta). Insomma, c’è anche un danno economico, stare fuori sede e fare un sacrificio per fare uno stage è un conto, stare a Roma a non far nulla è altra cosa».
Alla nota che hai pubblicato su Facebook ha risposto un giornalista de “L’Unità”, ricordando che l’amministrazione, e quindi l’azienda, non va confusa con la redazione. E che l’errore c’è stato, sì, ma da parte dell’azienda, che non ha chiuso sin dall’inizio le porte agli stagisti. Il comitato di redazione, dal canto suo, s’è fermamente opposto alla deroga dell’Ordine che permetteva lo stage nonostante lo stato di crisi del giornale. Ti senti un po’ tra l’incudine – il sindacato – e il martello – l’Ordine?
«Hai centrato perfettamente la questione. Il discorso del giornalista de “L’Unità” è ineccepibile. In questo momento, noi delle scuole siamo dei clandestini. Per intenderci, molti commenti alla mia nota sono arrivati da colleghi praticanti, alcuni con motivazioni esatte, altri che hanno scritto un mare di idiozie. Io non difendo il mio diritto a fare lo stage perché voglio che a casa leggano la mia firma o sappiano che ho pranzato con il giornalista famoso; io tra 20 giorni non sarò più uno stagista, ma un precario. Perciò da un lato dico che sì, il sindacato ha ragione: gli stagisti non devono essere lavoro gratis e strumento di ricatto per i redattori; dall’altro, dico che dovremmo essere tutelati anche noi allievi delle scuole. L’Ordine ci dice che le scuole sono la principale via d’accesso alla professione, perfetto, però deve seguire qualcosa anche in senso pratico. Altrimenti, se sfornano disoccupati, mi dici che senso ha tenere aperte tante scuole e aumentare addirittura le sessioni per l’esame da professionisti?».
Come vedi il tuo futuro da adesso a quando non sarai più un praticante bensì un professionista? Credi ci sia spazio per te e per chi, come te, studia da anni per diventare giornalista?
«Ecco la domanda da un miliardo di dollari. Be’, storie come la mia, ma più in generale il panorama dei media di oggi, non spingono all’ottimismo. Non sono mai stato tipo da piagnucolii o da “moriremo tutti”. Io voglio fare questo mestiere, perciò mi rimbocco le maniche e affilo le armi. Certo, credo che ci sia bisogno di un cambiamento strutturale, le scuole di giornalismo sono un investimento dispendioso per chi le fa, non devono essere considerate un “praticantatificio”, e per questo si deve creare un tessuto di regole che tuteli noi allievi anche dopo la scuola. Leggo di giornali che per i siti web cercano persone laureate o laureande, che non siano pubblicisti o professionisti o praticanti… Contratto da 4 o 500 euro al mese per tre mesi (in modo da non poter ricevere denunce) e via. È assurdo. Bisognerebbe vigilare, creare un meccanismo basato sulla meritocrazia… La Rai, ad esempio, non fa un concorso dal 1991. In ogni caso, potremmo stare qui ore a parlare di tutte le magagne del sistema, ma considerarsi una vittima e non fare nulla per me è come essere complice. Mi piacerebbe, con i colleghi delle scuole di ieri, di oggi e di domani, rendere le scuole davvero la principale porta d’accesso alla professione. Staremo a vedere».
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