Un messaggio non solo religioso, ma anche politico e sociale. Il pontificale dell’arcivescovo Luigi Renna nella cattedrale di Catania per le festività di Sant’Agata ha fatto rumore. «Abbiamo paura di una politica del “si è fatto sempre così”, che non risolva i problemi ma li complichi con amministratori poco competenti, eterodiretti, con problemi in sospeso con la giustizia che non danno esemplarità in una città che ha al suo interno una parte della sua popolazione agli arresti domiciliari». Una fotografia in bianco e nero del capoluogo etneo ritratta dall’arcivescovo proprio a qualche mese dalle elezioni comunali. Un appuntamento a cui si arriva dopo un dissesto, una sospensione del sindaco condannato in primo grado per peculato, una revoca di un commissario straordinario. Dall’ambone, monsignor Renna si è rivolto «a voi, uomini che avete a cuore il bene comune nell’amministrazione pubblica: sappiate portare ogni giorno la croce di chi rifiuta il compromesso e fa crescere l’onestà. Se voi porterete bene la vostra croce, la città risorgerà». Non solo un anatema ai politici ma anche un appello ai cittadini, specie quelli che vivono in contesti di maggiore criticità: «Non abbiate paura di rischiare e di puntare tutto sulla fede, sull’onestà, sull’amore per la famiglia e per il futuro dei vostri figli. Riprendetevi la croce di dover decidere della vostra vita, di dover dire il vostro pensiero sulla città, sulla politica, sulle scelte di chi vi ha governato e vi governerà».
Non si fa fatica a definire le sue parole come un’omelia politica. Inaspettata da parte di una Chiesa che, per molto tempo, è stata lontana dal tema. Si aspettava il clamore provocato?
«È evidente che la parola di Dio vada attualizzata, calata nelle epoche e nei contesti. Tra le tante tematiche che hanno bisogno di essere attualizzate c’è sicuramente quella della politica. Tanto più in una città come Catania rimasta senza guida e che, adesso, si avvicina a un importante appuntamento elettorale. Le mie parole sono state dirette, è vero, ma nell’ottica di una formazione delle coscienze non certo di specifiche indicazioni di voto».
E, in effetti, lei si è rivolto direttamente ai politici. Gli stessi seduti in prima fila durante la celebrazione. Ha ricevuto qualche risposta? Se le aspetta?
«Ho visto che c’è stato gradimento di fronte alla mie parole e ho apprezzato un silenzio di condivisione da parte di alcuni politici. Nessuna manifestazione aperta, ma nemmeno contestazioni. E va bene così, perché tutto deve essere fatto in un’ottica di rispetto reciproco e di autonomia. Del resto, li ho semplicemente invitati a mettere in pratica ciò che dovrebbe essere normale».
Eppure non lo è. Tanto che per ogni tornata elettorale, da un lato, peggiora il tasso di astensionismo da parte degli elettori e, dall’altra, emergono episodi di voto di scambio.
«Questa è una cosa che degrada chi riceve dei soldi in cambio del proprio voto, perché si rassegna a essere trattato alla stregua di una persona che può essere comprata per un pezzo di pane. Ma, allo stesso modo o forse ancora di più, degrada chi compie quel gesto perché vuol dire che non ha l’autorevolezza di rappresentare gli altri e crede di poter comprare le persone. Che, invece, nel momento in cui si sono allontanate dalla vita politica, anche intesa in senso ampio, vanno recuperate e riavvicinate».
In situazioni sociali e politiche come quelle che stiamo vivendo, a pagare le conseguenze sono soprattutto le persone più fragili, quelli che lei durante l’omelia ha definito “rassegnati a farsi illuminare dalla luce della luna”. Come si evita questa rassegnazione?
«Innanzitutto parlandone. Perché tacere è il primo grave sintomo di accettazione. Un silenzio che in periodo elettorale è ancora meno accettabile. Con le mie parole credo di avere sollevato un tema, di avere dato la giusta attenzione a qualcosa che si rischia di perdere: la possibilità di pensare la politica in modo diverso. Penso ai tanti movimenti di carattere politico, alle associazioni e, perché no, anche ai partiti che si possono sentire sollecitati da quei paletti del bene comune su cui si fondano tanto la Costituzione quanto il Vangelo. Un binomio che non è rivoluzionario ma che, in questo momento storico, va riscoperto e coltivato».
La sua omelia, oltre che politica, è stata anche sociale. Un modo per rivolgersi anche ai non credenti?
«Del resto anche Sant’Agata non è di certo solo dei cittadini tutti devoti tutti ma di tutti i cittadini catanesi. Per questo il mio appello era rivolto agli uomini di buona volontà che vorranno rispondere, senza distinzioni».
Un grande segno di apertura. Che c’è anche nei confronti delle altre comunità religiose locali?
«Era una storia già iniziata prima di me quella di costruire un percorso comune, per esempio con l’Imam di Catania Abdelhafid Kheit. Esiste proprio una apposita consulta e adesso, per allargare e aprire ancora di più, ho creato anche qui un ufficio per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso».
Forse anche all’interno della Chiesa bisognerebbe parlare di più? Mi riferisco al report pubblicato di recente sugli abusi sessuali del clero ai danni di minorenni che vede la Sicilia al terzo posto con 39 casi. La Chiesa cosa può fare o sta facendo?
«La Chiesa ha già fatto. È un tema di cui parliamo, che affrontiamo, e in ogni diocesi c’è un centro di ascolto dedicato. Ma credo sia una questione da affrontare a tutto tondo: perché gli abusi sui minori arrivano da sacerdoti e religiosi ma anche da ambienti familiari o scolastici. Tra l’altro la Chiesa ha una legge canonica molto severa che prevede processi al termine dei quali, quando colpevoli, i sacerdoti vengono dimessi dallo stato clericale per procedura. E per la legge canonica non esiste la prescrizione per questo tipo di reato. Noi stiamo dalla parte delle vittime e, quando arrivano prima da noi, le invitiamo a denunciare tutto anche alla giustizia ordinaria. Spesso non lo fanno perché è trascorso molto tempo dai fatti, ma anche chi ha subito violenze ha a cuore il fatto che quel sacerdote venga allontanato e non reiteri certi comportamenti».
Una domanda sulla festa di Sant’Agata è d’obbligo: come è andata questa edizione del ritorno? La critica principale riguarda gli estremi ritardi sulla tabella di marcia, con il canto delle clarisse non più all’alba e i fuochi del Borgo che non si vedono perché è già giorno. Davvero non si riesce a stare in tempi più ristretti?
«Il bilancio è molto positivo sia per l’aspetto della collaborazione con il comitato e le istituzioni locali, sia per la riuscita delle manifestazioni folkloristiche e culturali e anche per la bella partecipazione di fedeli. Una partecipazione prudente da cui è dipesa qualche difficoltà. I ritardi, devo dire, non sono stati voluti da qualcuno in modo pretestuoso ma sono stati frutto di una prudenza dovuta all’alto numero di presenti, che richiede sicurezza. Per esempio si è stati fermi per oltre mezz’ora in piazza Stesicoro per controllare i freni prima della salita di Sangiuliano. Quello non è affatto tempo perso ma bene impiegato per la garanzia della sicurezza. Le cose bisogna farle bene in questo modo, ma per il futuro si può provare a capire se è possibile ricavare del tempo in altro modo».
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