Una paginetta e mezzo. Parte da qui la sfida ai padroni delle discariche lanciata nelle settimane scorse dal presidente Nello Musumeci, con l’annuncio di volere aprire le porte dell’isola agli industriali degli inceneritori. O termoutilizzatori, come ha scelto di chiamarli il governatore. Il documento è quello con cui la Regione chiede ai privati di farsi avanti con un’idea da mettere a gara e la possibilità di gestire due impianti. Fin qui nulla di strano, considerato che rientra nella logica della finanza di progetto, schema già seguito nel campo dei rifiuti per affidare la realizzazione di impianti di produzione di biometano. A saltare, però, agli occhi di chi mastica la materia è stata la stima fatta dagli uffici del dipartimento Rifiuti della quantità di spazzatura che ogni impianto dovrebbe trattare. «Ciascuno una capacità di trattamento di circa 350-450mila tonnellate all’anno», si legge nell’avviso.
Il motivo di tanto stupore va cercato nel piano regionale di gestione dei rifiuti che il governo Musumeci ha varato in primavera. Un risultato vantato dal presidente e che ha, di fatto, chiuso l’esperienza da assessore di Alberto Pierobon. Nella tabella riguardante lo scenario regionale dei prossimi due anni, quando si conta di raggiungere il 65 per cento di differenziata che l’Europa chiedeva già per il 2012, in Sicilia la quantità di rifiuti indifferenziati dovrebbe di poco superare la soglia delle 800mila tonnellate all’anno. Calcolatrice alla mano, si potrebbe dire che i due impianti complessivamente – «anche se ballano 200mila tonnellate tra l’ipotesi più contenuta e quella massimale», è la riflessione fatta un tecnico del settore a MeridioNews – soddisferebbero l’intero fabbisogno della Sicilia. Il problema è che, però, le cose non stanno così. Perché per tarare la capacità degli inceneritori non basta far di conto. «Bisogna fare riferimento alla normativa, che dice chiaramente che non tutto l’indifferenziato può finire in un termovalorizzatore», sottolinea l’esperto.
Le direttive europee chiariscono che gli impianti che si basano sulla combustione non possono essere intesi come sostituti delle discariche, ma vengono un passo prima nella gerarchia del trattamento dei rifiuti. A fare ingresso può essere il materiale conosciuto come Css (acronimo che sta per combustibile solido secondario) che i dati dicono rappresenti, nella migliore delle ipotesi, circa la metà dell’intera indifferenziata. Quest’ultima, infatti, prima di finire nei forni va privata della parte umida del rifiuto, ma anche dei materiali ferrosi e plastici. Ciò fa sì che, basandoci sulla previsione di 800mila tonnellate annue di indifferenziato, a entrare nei termovalorizzatori sarebbero circa 400mila tonnellate. Quasi la metà dell’ipotesi minima immaginata dalla Regione nell’avviso rivolto ai privati. La restante parte sarebbe comunque destinata in discarica, dopo essere stata biostabilizzata.
Considerato poi che i tempi di realizzazione non sono immediati e l’entrata in esercizio di un impianto di questo tipo è da intendersi per lunghi periodi di tempo, va considerata la prossima adozione della direttiva sull’economia circolare che innalza al 70 per cento, entro il 2030, la quantità di rifiuto da recuperare. Non da raccogliere. Significa, quindi, che per raggiungere questo traguardo la raccolta differenziata dovrà essere superiore al 70 per cento e ciò perché non tutto ciò che viene raccolto alla fine viene realmente riciclato. Chi si oppone ai termovalorizzatori pone poi altri due temi: il primo riguarda il carattere potenzialmente diseducativo di questi impianti sui comportamenti dei cittadini e sulle buone pratiche indirizzate alla riduzione della produzione dei rifiuti, il secondo fa riferimento alle ceneri prodotte dall’incenerimento. A fronte di quantità di energia prodotta che fanno difficoltà a competere con le rinnovabili, gli scarti derivanti dalla termovalorizzazione riducono a un decimo il volume dei rifiuti ma hanno anche una concentrazione di inquinanti molto più elevata di quelli che comunemente finiscono in discarica, dopo essere passati dagli impianti di trattamento meccanico-biologico.
Resta, infine, una domanda: trattandosi sostanzialmente di progetti a conduzione privata, la taratura degli impianti potrebbe essere stata pensata per ricevere anche rifiuti urbani da fuori la Sicilia? La risposta anche in questo caso va trovata nelle norme. L’attuale legge regionale, e lo stesso vale per la riforma che ancora attende di essere votata all’Ars, guardano agli impianti come siti dove trattare la spazzatura prodotta nelle aree di prossimità. Se oggi i rifiuti viaggiano da una parte all’altra dell’isola, superando i confini degli ambiti, ciò va inteso come gestione straordinaria dettata dalla carenza di impianti. Discorso diverso sarebbe quello di fare della extra-ordinarietà la base per lo sviluppo di possibili nuovi business privati.
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