In nome di Medea: morte, vendetta e teatro

“Sono sola e senza patria” grida Medea dal teatro greco di Siracusa
dove, per il quarantacinquesimo anno, l’INDA (Istituto Nazionale del
Dramma Antico) mette in scena “Edipo a Colono” di
Sofocle (regia di Daniele Salvo con Albertazzi nei panni di Edipo) e
“Medea” di Euripide, scegliendo così il
tema dello straniero.
E’ la sesta volta per la barbara della Colchide a Siracusa,
interpretata per ben due volte (nel ’72 e nel ’96)
dalla grande Valeria Moriconi e stavolta affidata ad una splendida
Elisabetta Pozzi sotto la regia di Krzysztof Zanussi.

Volgere lo sguardo al passato per capire il nostro presente: questo
è il senso della rappresentazione drammatica antica.
Interrogare i miti greci non per enfatizzare retoricamente la
“tradizione”, “le origini”,
“l’identità”, “la
base della nostra cultura e del teatro contemporaneo”, ma per
guardare il progresso fatto ieri che il passato ci consegna per
costruire il nostro oggi. 

E più che di progresso e di storia fatta dagli uomini, a
proposito di Medea possiamo, anzi, dobbiamo, parlare della storia e del
progresso che hanno fatto le donne.
Era il lontano 431 a.C. quando Euripide scrive Medea (vincendo il terzo
premio!) e rivoluziona il teatro degli Eroi, degli uomini, dei
vincenti, rappresentando piuttosto i dilemmi interiori, gli strazi, le
insicurezze, analizzandone con realismo le motivazioni e portandole
alla luce o meglio, portandole davanti alla Polis, grande
interlocutrice del teatro antico.
Ed è così che Euripide parla di donne: Andromaca,
Fedra…Medea: nuova figura tragica che, tradita la patria e
ucciso il fratello per amore di Giasone, pur di aiutarlo a recuperare
il Vello d’oro, fugge a Corinto con lui, che, invece, sposa
Creusa – la figlia del Re- abbandonando Medea e i suoi due figli.

Non un banale “che ne sarà di me?” ma il
grido disperato di una donna tradita perché
“barbara”, perché non greca,
perché straniera. E il tema dello straniero, non
è forse un tema squisitamente novecentesco e non siamo forse
tutti stranieri, come ci racconta tanta filosofia esistenzialista? Non
erano forse “straniere” le donne in Grecia? Una
Grecia che non riconoscendo loro il diritto di voto –un
esempio tra i tanti possibili- le possedeva, ma loro – di certo – non
possedevano la loro terra… E chi è oggi lo
straniero, quello che fugge nella “Grecia” dei
nostri giorni? Se solo dal piccolo teatro di Siracusa guardassimo non a
est, cioè verso Corinto, ma ad ovest,
nell’agrigentino (e non meno “greco”)
Porto Empedocle…

E la dialettica tra i sessi, certo: altro tema di scottante
attualità.
Medea chiede giustizia agli dei per il tradimento del letto coniugale,
viene derisa da Giasone perché donna e il
“fenomeno-donna” non transige il tradimento in
amore: la donna è essere irrazionale contro
l’equilibrio e il realismo maschile, quel realismo e quel
pragmatismo che garantirebbero ai figli di Medea dei fratelli di
“razza”, “greci”,
“cresciuti con i figli del Re”, tutto quello che
una barbara della Colchide non può dare.
E il coro la interroga e la incalza: “Medea, dove andrai?
Cosa farai adesso?” e lei invoca Ecate, dea dei viandanti e
delle arti magiche, dea della Stregoneria.
E’ una “maga”, Medea. Conosce molte arti,
è una donna che sa, terribile, spietata, “vagina
dentata” che per amore di Giasone sacrifica il fratello e
tradisce il padre, tradisce la Colchide, e che per vendetta prepara dei
filtri velenosi con cui ucciderà Creusa, futura sposa del
suo ex marito.

Vendetta, vendetta…tema splendidamente evidenziato dalla
scenografia: arida, bianca e spoglia come la solitudine della
protagonista, con una “M” rossa al centro.
“E adesso la nostra storia di donne verrà
riscritta” dicono le coriste, statuarie, con i vestiti chiari
e i veli accarezzati dal vento, che contribuiscono ad arricchire la
scena, a coinvolgere emotivamente il pubblico e ad accompagnarlo nella
“catarsi”.
Elisabetta Pozzi – riconosciuta attrice di teatro con premi
Ubu e premio E. Duse – varca la scena incoronata e disperandosi si
inginocchia, supplica, grida, si toglie i veli man mano che viene
privata della sua dignità e atto dopo atto prepara la sua
rivincita.
Si vendica per non essere derisa da chi l’ha rovinata, uccide
i suoi figli pur di non perderli, pur di non farli uccidere da qualcun
altro, pur di punire il padre.
L’irrazionale irrompe, si scontra col reale, tormenta la
donna che deve essere giustiziata per l’orribile crimine
commesso.

Ma Medea non è una donna comune. E’ figlia della
ninfa Idia, nipote di Circe e discendente di Apollo. Può la
giustizia degli uomini sostituire quella degli dei? No, ci dice
Euripide.
Il Sole manda il suo carro e così Medea, straziata dal
dolore e prostrata, spunta dall’alto e fugge lontano, dove i
comuni mortali con le loro ingiustizie e la loro barbarie, incapaci di
comprendere il dolore profondo di una donna, non possono raggiungerla.

La Grecia è ormai lontana, ma le tracce che ci ha lasciato
sono la base della nostra cultura. Adesso non è
più come una volta: Euripide parlava alla città,
parlava della condizione delle donne, è stato il primo a
farlo e a mettere in scena questo e tanti altri drammi.
Adesso, per quanto la rappresentazione sia antica,
c’è sempre un po’ di moderno: i
microfoni ad esempio, perché la città ha i suoi
rumori e la vita non si ferma davanti al dramma. Semmai è il
dramma che scorre accanto alla città, per chi lo vuole
sentire e per chi ancora vuole riflettere su chi eravamo ieri e su chi
siamo oggi.

La Grecia è finita, l’arte però no:
è questo l’insegnamento degli antichi. Il dramma
resta con la sua attualità e i suoi temi che sentiamo ancora
tanto vicini alla sensibilità dei nostri giorni.
E la voce di Medea echeggia a teatro e lascia il segno con la sua voce
disperata e chiara. E il suo dolore ci è stato stavolta
regalato dalla voce della splendida e regale Elisabetta Pozzi.

Le
foto della rappresentazione

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Lucia Occhipinti

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