“Non chiamatemi eroe perché non lo sono: ho fatto una cosa normale”. Questa è l’unica condizione che Andrea Vecchio detta ai giornalisti. Il costruttore catanese, membro di Confindustria, che si è ribellato al racket e che nell’agosto del 2008 è stato vittima di quattro attentati intimidatori da parte della mafia, è molto disponibile, gentile e mostra grande voglia di rispondere alle domande, soprattutto dei giovani. Così, anche noi di Step1 lo abbiamo intervistato.
La sua denuncia ha avuto un effetto dirompente e il merito indiscusso di riaccendere i riflettori sul fenomeno del racket. Dalla nostra città è partito, una volta tanto, un messaggio diverso e positivo. Pensa che questo messaggio sia stato recepito dai suoi colleghi imprenditori o ritiene piuttosto che il suo sarà un gesto isolato?
“Quando si lancia un sasso in uno stagno, in un’acqua immobile, il sasso nello stagno crea una serie di onde che partono dal punto dove il sasso è arrivato e vanno verso l’esterno. Più grosso è il sasso e più violenta la forza che si imprime nel lanciarlo, più sono grandi le onde, travolgenti. Ma non spetta a me dire se il mio gesto ha raggiunto i miei colleghi, ognuno si comporta secondo la propria indole, la propria coscienza, il proprio carattere, la propria maniera di essere e di vivere. Se i casi di denuncia, come dicono le forze dell’ordine, stanno aumentando, se questo è vero e mi auguro che sia così, allora non è stato un caso isolato. Certo, ce ne vorrebbero molti di più di questi casi, ma accontentiamoci di quello che c’è per il momento”.
A cosa dovrebbe fare appello un imprenditore, per reagire, quando riceve una richiesta di pizzo o quando sta già pagando? Lei a cosa ha fatto appello?
“Dipende dal valore che si dà al denaro. Se tu al denaro dai un alto valore morale e un basso valore mercenario allora ti ribelli; se gli dai invece un basso valore morale, perché magari lo guadagni in maniera non tanto corretta, e un alto valore mercenario allora ti viene facile pagare il pizzo”.
La sua scelta di denunciare è stata una scelta difficile: oltre al sostegno della sua famiglia e alle attestazioni di stima più o meno scontate, cosa si aspetta dalla società civile catanese?
“No, la mia è stata una scelta molto facile. Io ho cominciato a denunciare nel 1982: quella sì, la prima scelta è stata molto difficile, perché non ero mai stato in contatto con questi fatti, con questi eventi, e quindi la prima volta mi sono impaurito veramente. Però ho avuto la fortuna di incontrare un “amico buono”, come ti dicono quelli (gli estortori, ndr) che mi ha accompagnato dalle forze dell’ordine, che consigliandomi di mettere una segreteria telefonica mi hanno fatto capire che la forza e la potenza di questi sta nel rimanere invisibili. Quando arrivano al contatto sono persone… persone…”.
Vecchio, stavolta, non usa aggettivi: la sua espressione esprime perfettamente la bassezza di quegli individui. E continua: “In seguito a questa esperienza ho avuto, per esempio, il piacere di parlare con lei, splendida ragazza con un bellissimo sorriso e un bellissimo sguardo; di questi piaceri ne ho ricevuti tantissimi e, quindi, basta solo questo per ripagarmi di qualche piccola paura che mi sono preso”. È galante il signor Vecchio, e grazie al suo modo di fare gentile e pacato sembra che quello che dice non sia mai esagerato.
Il protocollo di legalità che il comune di Gela applica negli appalti pubblici ha permesso che le ditte vincitrici degli appalti siano pizzo-free e che il numero delle opere pubbliche realizzate sia cresciuto del 50 per cento. Crede che applicare tale protocollo, a livello regionale e poi nazionale, possa incentivare le denunce ed essere un valido strumento per la lotta al pizzo?
“Non credo, e non lo credo perché in una realtà ristretta è possibile applicare norme e regole di questo tipo, perché sono poche le opere che si devono controllare e poche le iniziative che si devono blindare. A livello molto più ampio, non credo che i protocolli di legalità, per quanto fatti bene, possano essere utili. Io credo che dobbiamo intervenire nella crescita sociale e culturale di tutta la nostra società: dobbiamo mettere semi piccoli e farli crescere per farli diventare giganti, perché c’è una malapolitica, una malaburocrazia, e allora bisogna entrare dentro questi meccanismi per cercare di smuoverli. Noi abbiamo la classe politica più vecchia d’Europa. Non ci sono ricambi, non ci sono giovani come voi che possano correre per occupare dei posti dai quali apprendere e rendere. Si parla delle solite persone, sempre le stesse: il parlamento più vecchio d’Europa credo sia il nostro. Non è possibile andare avanti in questo modo”.
In base alla sua esperienza, ha qualcosa da rimproverare alle Istituzioni e/o da suggerire?
“Una cosa molto semplice: che se ne vadano tutti a casa. Che dei vecchi non si presenti più nessuno, che trovino nei giovani, nella società civile, nuova linfa; che non si servano del clientelismo; che i baroni universitari si mettano da parte; che non faccia il ricercatore all’università il figlio del professore o il nipote del politico, ma chi ha meriti, numeri e intelligenza da spendere. Questo è il messaggio che io voglio lanciare”.
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