«Non sono imputato però ritengo di doverlo fare, quindi chiedo scusa e perdono ai familiari delle vittime, allo Stato e alla società civile, punto». Era il 7 febbraio scorso quando Giovanni Brusca, ex campomafia di san Giuseppe Jato e da anni collaboratore di giustizia, chiudeva la sua testimonianza (dopo circa cinque ore di esame) in occasione del processo romano a carico dei poliziotti Mario Bo, Michele Ribaudo e Fabrizio Mattei accusati di calunnia aggravata in merito al depistaggio sulla strage di via D’Amelio.
Quelle scuse, però, non sono bastate al tribunale di sorveglianza di Roma che questa mattina ha respinto la richiesta di detenzione domiciliare avanzata dai suoi legali. E non sono bastati neanche i contatti ripetuti con Rita Borsellino, la sorella del giudice ucciso il 19 luglio 1992, nonostante l’ex boss abbia più volte detto che quell’incontro gli ha «cambiato la vita». I giudici ricordano che «risulta solo l’incontro con Rita Borsellino, avvenuto su iniziativa di quest’ultima e che non vi sia stata una richiesta di perdono nè a lei nè ai suoi familiari».
Nelle sette pagine di motivazione del provvedimento di rigetto i giudici ripercorrono anche la feroce storia criminale dell’ex boss di Cosa nostra: condannato per decine di omicidi e stragi, tra cui quelle di Capaci e Via D’Amelio, e per aver fatto rapire e uccidere il piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio di un pentito, Brusca venne arrestato a maggio del 1996.
«Pur avendo fatto una revisione critica delle sue azioni criminali – si legge – non ha compiuto quel percorso diretto alla manifestazione di un vero e proprio pentimento civile che è necessario per poter godere della detenzione domiciliare». L’ex boss, secondo i magistrati, si è giustificato sostenendo di non voler mortificare le vittime chiedendo loro scusa. Una giustificazione che adduce un pudore «non credibile per chi si è macchiato di efferati delitti tra cui l’uccisione di bambini e che ha mietuto vittime in modo indiscriminato».
I giudici ricordano che dal 2003 Brusca ha già goduto di alcuni permessi premio. E che nel 2017 aveva chiesto la detenzione a casa: anche in quel caso, comunque, l’istanza fu respinta. I magistrati ammettono il percorso compiuto in carcere dall’ex padrino di San Giuseppe Jato, che ha mostrato la volontà di dimostrare il suo cambiamento, è in contatto con un’associazione antimafia e ha fatto volontariato, nei colloqui con la psicologa «si sofferma sui propri misfatti senza riluttanza e rigetta letture, giustificazioniste», definisce Cosa nostra «lurida e schifosa e che ha dato un contributo determinante in numerosi processi».
Tuttavia visto l’eccezionale spessore criminale, «il numero rilevantissimo di omicidi commessi», per avere gli arresti domiciliari non basta un mero ravvedimento ma serve «un mutamento profondo e sensibile della personalità del soggetto tale da indurre un diverso modo di sentire e agire in armonia con i principi accolti dal consorzio civile. Non basta un rapporto collaborativo, che è piuttosto il presupposto della qualifica della collaborazione con la giustizia, né è sufficiente un adattamento alle regole del carcere, ma sono richiesti comportamenti positivi e sintomatici che tendano a recuperare i valori morali dell’uomo».
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