Tesoro di Scuto e la «persistente pericolosità sociale» Motivi Cassazione su revoca confisca e sorveglianza

Una carenza nel giustificare la richiesta di privarlo del suo patrimonio collegato alla galassia Aligrup e una pericolosità sociale ritenuta attuale che, invece, spiegherebbe il mantenimento della sorveglianza speciale per tre anni con l’obbligo di residenza a San Giovanni La Punta. La vicenda giudiziaria dell’imprenditore della grande distribuzione alimentare Sebastiano Nello Scuto, accusato di avere costruito il suo impero economico accanto al clan mafioso dei Laudanisi arricchisce di un nuovo capitolo. Si tratta di quello che riguarda le misure di prevenzione patrimoniali. Strumento introdotto con la legge Rognoni-La Torre nel 1982 per ostacolare l’acquisizione di ricchezze da parte di quei soggetti ritenuti vicini, o appartenenti, alla criminalità organizzata. Un percorso che ha come finalità il sequestro o la confisca e che, per essere applicato, necessita di alcuni requisiti come quello della sproporzione tra fonti e impieghi. 

Parallelamente al processo penale, in cui Scuto è invischiato ormai da quasi vent’anni, c’è – appunto – la vicenda relativa al suo patrimonio. Iniziata nel luglio 2008 quando il tribunale presieduto dal giudice Michele Fichera, in primo grado, rigetta il provvedimento di sequestro dei beni perché in parte gli erano già stati tolti dopo l’arresto. Nel 2017, quasi dieci anni dopo la prima decisione, la terza sezione della  corte d’Appello ribalta tutto e dispone la confisca dei beni di Scuto e dei suoi congiunti. A settembre dello stesso anno il colpo di scena arriva con grande rapidità: la Cassazione annulla definitivamente la confisca e il patrimonio torna all’imprenditore, alla moglie Rita Spina, e ai figli. 

Adesso, a distanza di quasi un anno, le motivazioni di quella decisione sono state pubblicate in un documento di 27 pagine. In cui i giudici ermellini della sesta sezione ripercorrono tutta la storia e analizzano, punto per punto, l’impugnazione di avvocati e magistrati. In particolare si soffermano sulle presunte carenze contenute nel ricorso della procura generale – vecchio di quasi dieci anni – dopo la decisione di primo grado. Nel documento dei magistrati si parla sì del sequestro dei beni, ma in modo «rapido» e troppo generico per giustificarlo. Una carenza per i giudici della Cassazione perché a mancare sarebbero state le motivazioni per le quali l’imprenditore puntese Scuto non avrebbe dovuto mantenere soldi e società.

Un lungo passaggio è invece quello dedicato alla sorveglianza speciale, per la durata di tre anni, e all’attualità della pericolosità sociale dell’imprenditore. Una misura che secondo i difensori nasconderebbe «una errata applicazione della legge perché rivolta interamente a vicende del passato». Obiezione che la Cassazione rimanda al mittente: del resto, secondo i togati, «indicativo della pericolosità non è solo l’appartenenza di Scuto alla mafia, accertata nella metà degli anni ’80, ma sopratutto gli ulteriori atti del processo penale». Il riferimento è al rinvio a giudizio del 2004 e alle indagini successive – dai cui è stato assolto – che collegano l’espansione economica in provincia di Palermo del re dei supermercati con un presunto accordo con i boss locali Sandro e Salvatore Lo Piccolo

Questi elementi servirebbero a dimostrare la «persistente pericolosità sociale» di Scuto, «in quanto permane la sua appartenenza all’associazione mafiosa». Per la difesa, però, si sarebbe dovuto tenere in considerazione anche quanto avvenuto nel 2009. Quando Scuto denuncia il boss Sebastiano Laudani, perché a suo dire intenzionato a rapirgli il figlio Salvatore. Presa di posizione che dimostrerebbe «il recesso dei rapporti». Una spiegazione che i giudici del processo hanno accolto, ma che non ha convinto quelli delle misure di prevenzione. Perché, ricordano i magistrati di Roma, dopo quella denuncia, Scuto «non ha mai rivelato nulla sui rapporti intrattenuti» con i Laudani. Nei giorni scorsi l’imprenditore è stato rinviato a giudizio, insieme ad alcuni ex amministratori giudiziari, per il presunto crac Aligrup. 

Dario De Luca

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