Palermo ha paura. Non diminuisce, anzi aumenta. Ogni giorno sentiamo tante parole, ci martellano, entrano nella testa, uguali, ripetute, minacciose. Creano un tappo che isola e protegge, rende la distanza dalla notizia quasi più rassicurante. La nostra città, il territorio, la Sicilia si sentono lontani e vicino al rischio, vivono il disagio dell’incertezza, stemperano nelle tesi più fantasiose («L’Isis teme la mafia») uno stato d’animo combattuto dove il timore rende globale ogni declinazione di sospetto. Accanto a questo un ruolo lo svolge il tritacarne delle notizie, dove ogni cosa va al suo posto in un caos anche linguistico, dove manca il tempo per correggere l’imprecisione, dove semplificare è un verbo primario che autorizza e legittima l’inesattezza. Il terrorismo è una sciagura che secondo molti studiosi, al limite del compiacimento, in Occidente ci siamo meritati, vedremo di convivere con questo rischio per come sarà sostenibile.
A proposito di parole ce n’è una che più delle altre vive uno stato d’abuso forse anche eccessivo, ma che soprattutto fa torto alla sua natura etimologica. Kamikaze (vento divino) è, infatti, una delle parole giapponesi più famose nel mondo. L’origine etimologica è assai antica. Appare per la prima volta nella mitologia giapponese, ma è diventata famosa nell’epoca Kamakura. Nel 1274 e nel 1281 il condottiero mongolo Kublai Khan mandò delle truppe in Giappone, e, in entrambi i casi, i grandi tifoni hanno attaccato le navi mongole. I giapponesi in quest’era hanno chiamato i due tifoni Kamikaze e hanno ritenuto che il Giappone fosse protetto da divinità. Ciò ha reso la parola famosa. Nella nostra lingua la parola viene usata nel linguaggio giornalistico, convenzionalmente e in senso figurato concreto, per indicare attacchi suicidi di stampo terroristico. L’immagine del vento divino nasceva piuttosto come immagine legata a una difesa rispetto ad una minaccia. L’improprietà, pertanto, è più che evidente, senza avere bisogno di entrare nel merito di chi saccheggia in bagni di sangue la tranquillità dei nostri giorni in nome di tutto e di niente.
Roberto Saviano su L’Espresso ci ricorda come molti di noi oggi non sarebbero in grado di riconoscere l’esplosione di un colpo di pistola da un petardo. Ha ragione. La Palermo degli anni Ottanta insanguinata è per fortuna un ricordo lontano. Alcuni anni fa a bordo di una macchina alimentata a gpl percorrevo via Libertà, quando la macchina cominciò a sparare. Si girarono in tanti senza capire la provenienza di quei colpi. La mia tensione si sciolse in un sorriso. Auguriamoci di poter continuare ancora a lungo a non riconoscerli.
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