C’è un luogo dentro di me, dove le immagini prendono corpo, dove le singole sequenze, incerte ma ostinate, trovano l’anello di congiunzione che le lega e dà loro rifugio. Dà loro un senso. No: non un senso, tanti sensi, tanti significati, a volte anche contraddittori. Questo luogo è una regione della mia memoria, uno spazio tutto interiore che racchiude un tempo.
L’immagine, la singola immagine, non ha importanza: non dice niente. La singola immagine è priva di contesto: è una enciclopedia senza ordine, senza direzione. L’immagine per assumere un significato deve vivere di relazioni, di connessioni con altre immagini, di conflitti, di lotte e di amori. Non è l’immagine, ma sono le immagini. È questa moltitudine che crea il respiro della rappresentazione, che crea l’immaginario.
Ecco, finisco sempre per parlare di immaginario. È questo l’argomento delle mie parole disordinate. L’immaginario è un’idea che lega, che mette insieme, che rende gruppo le immagini, che elabora e dirige il flusso della rappresentazione. Così le immagini hanno un fine. Hanno un fine, ma non una fine. Almeno di solito è così: se c’è un immaginario, un immaginario forte, le immagini non hanno una fine. Ed è strano, quando le immagini senza fine raccontano la fine di un immaginario.
È successo questa settimana. Un immaginario si è spento, è imploso su se stesso, crollato per inedia. E per stupidità.
Hanno chiuso l’achab. Per sempre. Chiuso.
Come se fosse un supermercato, come se fosse un negozio che vende cose, oggetti che non vuole più nessuno. Lo hanno chiuso.
La saletta achab, una stanza con quarantacinque poltroncine blu, uno schermo di tre metri per quattro e due casse, ha smesso di funzionare. Ha smesso di raccontare storie, di essere finestra sul mondo.
È la vittoria del pensiero unico, fatalmente. La vittoria di quel compromesso che per interesse personale o per miopia o per idiozia ha decretato la fine di un’idea.
Sì, perché l’achab è un’idea di cinema, un’idea per vedere il cinema, per fare il cinema, per parlare di cinema. Lì dentro abbiamo fatto tutto questo. Lo abbiamo fatto noi, con le nostre parole, la nostra voce, la nostra voglia di metterci in gioco e di confrontarci. All’achab c’è stata l’ultima edizione del festival pollicino, poi per tre anni con Alessandro e Beppe abbiamo fatto osservatorio sud, dove tutte le proposte di espressione audiovisiva trovavano voce. Chi faceva un corto lo mostrava non più soltanto agli amici, ma anche a spettatori smaliziati e critici cinematografici. E scattava il dibattito, per crescere insieme. All’achab è venuto Enrico Ghezzi, a presentare il mezzo è l’aria, è venuto Alberto Grifi a parlare del suo cinema. Trenta ragazzi, per sei mesi, hanno preso parte a due corsi f.s.e.: ed è stata l’esperienza di formazione professionale e artistica più importante nella storia di Catania, per ciò che concernerne il linguaggio audiovisivo. La saletta, con Benedetto e Alessandro è diventata anche un riferimento per gli studenti universitari, che noleggiavano vhs introvabili, per studiare e godere di cinema.
Tutto questo adesso non è più. Perché il reale è razionale e il razionale presto o tardi diventa reale. Diventa pensiero unico. Libertà vigilata delle idee.
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