È stata la legge Basaglia del 1978 a sancire la progressiva chiusura dei manicomi nell’ambito di una nuova organizzazione dell’assistenza sanitaria ai soggetti malati mentalmente. Oggi, in Italia, rimangono attivi soltanto due ospedali psichiatrici giudiziari, anch’essi destinati a cessare la loro attività in favore di nuove strutture di sicurezza. Tuttavia, è ancora diffusa la credenza che all’interno dei manicomi trovassero posto soltanto i soggetti con gravi deficit cognitivi o pericolosi disturbi mentali. In un passato non troppo distante, l’etichetta pazzo veniva associata a una grande categoria di persone. Tra loro c’erano giovani soldati impegnati in guerra. Ragazzi da poco maggiorenni, spesso strappati dal proprio contesto familiare e impiegati a combattere a migliaia di chilometri da casa.
Da una ricerca della Fondazione Università di Teramo che dal 2010 cerca di valorizzare le memorie dell’ex manicomio Sant’Antonio Abate, è emersa la storia di Mario, ragazzo messinese protagonista della Grande Guerra. Mario appartiene al reggimento dei Fanti, viene spedito in Friuli insieme a migliaia di coetanei impauriti e tutt’altro che preparati ad affrontare la dura vita del soldato. A Messina, Mario lavorava come muratore. Aveva già una moglie e dei figli, ma nel 1915, a pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, arriva la chiamata. In trincea il giovane trascorre però poche settimane: gli viene diagnosticata una sindrome post traumatica da stress. Per lui si aprono le porte del manicomio di Teramo.
«Mario – racconta a Meridionews la ricercatrice Annacarla Valeriano – faceva parte di quella categoria di soldati considerata materiale umano da recuperare. Se il paziente riusciva a guarire tornava a combattere, in caso contrario sarebbe stato riformato e marchiato per tutta la vita. Dopo un periodo di osservazione all’ospedale di Chieti, il ragazzo è stato ricoverato all’Istituto S. Antonio Abate. Analizzando la sua cartella clinica, si evince la presenza di chiari sintomi da trauma. Mario tremava e trascorreva le giornate a nascondersi per paura di essere arrestato».
La degenza dura 40 giorni, ma alla fine Mario non guarisce e viene trasferito a Messina. Quale sia stata la sua fine non è stato possibile ricostruirlo: non si sa se è stato ricoverato in un altro manicomio o se è tornato a casa. Quello che è certo è che prima di lasciare l’Abruzzo riceve un’accorata lettera da parte della giovane moglie. Con un italiano stentato, la donna porta i saluti del figlioletto Paolino e prega affinché il marito torni sano e salvo a casa. Poche righe scritte dietro una cartolina che raffigura la città peloritana. «È una storia particolarmente toccante – precisa Valeriano -, un’importante testimonianza di come si viveva a quel tempo. Non escludo che analoga sorte sia toccata ad altri soldati siciliani, ricoveri di questo tipo erano molto frequenti».
Nel corso della ricerca, la Fondazione teramana ha analizzato circa settemila documenti, dal 1881 al 1945. I ricercatori si sono poi soffermati sul periodo fascista durante il quale i manicomi iniziarono ad ospitare una nuova tipologia di pazienti. «In quegli anni alle cartelle cliniche venivano allegate le foto dei pazienti. Molte erano donne considerate deviate, la categoria più numerosa era quella delle madri snaturate, ovvero incapaci di allevare i figli seguendo le direttive del regime. Erano considerate contro natura, così come le giovani madri che cadevano in depressione dopo il parto o si rifiutavano di concepire altri bambini».
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