Incidente c.so Duca D’Aosta, ipotesi impennata  Disposta l’autopsia sul cadavere del sedicenne

In corso Duca d’Aosta non ci sono segni di incidente. Non c’è niente che possa indicare che lì, venerdì seraè morto un ragazzo di 16 anni. Nel referto della polizia municipale c’è scritto che l’Honda Sh 300 sul quale si trovava assieme a un coetaneo probabilmente stava eseguendo una «manovra azzardata» quando è stato travolto da una Fiat Punto guidata da una donna di 74 anni. Quello che non c’è scritto è che gli investigatori pensano che i due giovani – su un motorino di cilindrata troppo grossa perché potessero guidarlo – stessero impennando. Una dinamica non chiara e ancora da accertare. Il fatto è avvenuto in una strada larga, che spesso viene usata dai ragazzi che vivono nella zona di corso Indipendenza per fare correre gli scooter. «Non escludiamo nessuno scenario – sostiene il comandante della polizia municipale Pietro Belfiore – Le indagini, però, sono ancora in corso e potrebbero emergere elementi del tutto diversi». Tra le cose ancora da chiarire c’è, per esempio, chi dei due ragazzi guidasse. E se indossavano il casco.

Lo scontro tra l’automobile e il ciclomotore sarebbe avvenuto prima delle 22 e ci sarebbe voluto poco perché sul posto arrivassero i familiari delle vittime. Uno dei due, il ragazzo di 16 anni che se l’è cavata con qualche contusione, è residente a Nesima. L’altro, E. R., abitava in una traversa che collega via Plebiscito a via della Concordia, nel pieno del quartiere San Cristoforo. È arrivato al pronto soccorso al termine di una corsa in ambulanza che si è rivelata inutile. Il ragazzo sarebbe arrivato in codice nero, già cadavere, mentre i comportamenti dei suoi familiari costringevano il personale sanitario a chiamare la polizia e a intervenire nel nosocomio. «Non ce l’avevano coi medici, era una reazione al dolore», dicono dalla questura. Alla quale non sono arrivate denunce né da parte dell’ospedale né da parte dei soccorritori del 118, che poco prima avrebbero chiesto l’intervento delle forze dell’ordine sul luogo dell’impatto. Posto dal quale si era già allontanata la donna che guidava l’automobile: secondo i vigili urbani, la situazione era diventata troppo pesante perché potesse restare.

Mentre E. R. veniva portato all’interno del pronto soccorso, i suoi parenti avrebbero «cominciato a distruggere tutto quello che avevano davanti – raccontano dal reparto – La madre, la zia e la nonna si buttavano a terra, si tiravano i capelli e sbattevano la testa contro il muro». E alle richieste di calmarsi sarebbero stati buttati per terra tavoli e computer. Nella struttura di emergenza sono arrivate quattro pattuglie delle volanti della polizia, «ma non sono bastate. Continuava ad arrivare gente, non riuscivamo neanche a contarli. Abbiamo chiamato ancora la polizia, e loro ci hanno detto che non potevano mandare altre volanti». «Noi cercavamo di assecondarli – spiegano – Ma non potevamo fare nulla. Entravano e uscivano dagli ambulatori come se fossero a casa loro, eravamo trasparenti». Non solo. Alcuni dei parenti, nel frattempo, avrebbero accusato malori. «Siamo stati minacciati, ci dicevano che dovevamo stare al triage ad assistere tutti quelli che erano lì e che si sentivano male, e lasciare perdere gli altri pazienti».

«La mamma del ragazzo ha preso poi una cucitrice, gliel’abbiamo dovuta togliere dalle mani prima che la usasse per fare qualunque cosa», chiariscono i sanitari. Tra i danni anche una bacheca staccata da una parete e sfondata. La situazione del pronto soccorso si è normalizzata soltanto quando la giovane vittima è stata trasferita in obitorio. E l’attenzione dei familiari si è spostata nell’altra ala del Vittorio Emanuele. «Sicuramente ciò che è avvenuto non riguarda un contesto facile – prosegue Belfiore – Ma che importa? Qual è la notizia? La notizia è che un ragazzino di 16 anni è morto in mezzo alla strada. Al di là delle indagini, dal punto di vista umano il dato è quello. Poi i rilievi chiariranno cosa stava succedendo in quel momento. Il suo è solo un caso, uno dei tanti». Ma in alcune zone della città di casi ne capitano più che in altre. «Bisognerebbe chiedersi perché non diminuiscono. È perché corrono – conclude il comandante – Intendo in senso figurato: corrono come stile di vita». E capita che non riescano a rallentare in tempo.

Mattia S. Gangi

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