«Iddu ha parrari cu mia, cu Masino». Da quando è tornato, Tommaso Inzerillo si è ripreso tutto quello che la seconda guerra di mafia gli aveva tolto con la forza e col sangue. Decimata la storica famiglia di Passo di Rigano e costretti a fuggire negli Stati Uniti, gli Inzerillo hanno aspettato con pazienza il momento per fare ritorno. Che è arrivato ed è stato tutto, fuorché una cosa avvenuta in sordina, anzi. Scarcerato nel 2013, il cugino 70enne del padrino Totuccio Inzerillo ucciso nell’81 si dà subito da fare per riprendersi un territorio sentito sempre come proprio. E che, di rimando, sembra quasi ricordarsi con nostalgia e devozione di quel cognome. Li cercano tutti, gli Inzerillo, sia i mafiosi che non aspettavano altro che il loro ritorno per prendersi una rivalsa sul passato, compresi alcuni ex alleati dello stesso Riina che li costrinse alla morte e all’esilio, sia i comuni palermitani. Cittadini che quel cognome lo ricordano bene, ne conoscono il peso e la storia, e che proprio in virtù di questo ricordo si rivolgono alla famiglia di Passo di Rigano ora per avere protezione, ora per risolvere contenziosi privati, ora per sapere in quale punto aprire una nuova attività. Dall’ambulante che vende cibo per la strada al medico che vuole una mano per gestire la vertenza di un’ex dipendente.
Ma non c’è solo la storia dalla loro. C’è anche un uso spregiudicato e arbitrario di una violenza che non guarda in faccia nessuno. Specie quando si tratta di dover contenere alcuni «comportamenti riottosi rispetto alle volontà della famiglia». «Come una cagna… Ci faccio combinare un …ohu! Ci mando la squadra e ci faccio combinare un macello là», dice, intercettato, lo stesso Masino Inzerillo a proposito della possibilità di organizzare una violenta rappresaglia contro qualcuno. È la sera del 4 luglio 2018, e l’anziano boss infuriato non fa che ripeterlo: «Lui se ne deve andare da là – insiste -, gli faccio rompere le gambe, quello che succede succede, se ne deve andare». Lo dice a uno dei suoi fedelissimi, Giuseppe Spatola, che verso Masino ha un «atteggiamento quasi servile»: lui è il suo soldato, quello che deve fungere da tramite per dirimere tutte le questioni di interesse della famiglia mafiosa.
Appartenenze della quale Masino Inzerillo si fa forte, sentendo quasi di non avere nemici. O, quanto meno, nessuno che possa effettivamente dargli fastidio. «Li macino, anche se dovesse venire un parente mio, gli sparo in bocca, me ne vado fuori binario – dice al cugino Francesco Inzerillo, anche lui uno scappato che ha fatto ritorno a Palermo -. Non si deve immischiare… da noialtri non si deve avvicinare… da me, non ci deve passare più nessuno». In un clima a fare da sfondo di generale rispetto e riverenza addirittura. Il suo e tutti gli altri nomi che contano, nella zona, li conoscono praticamente tutti. C’è una città intera che sa del loro ritorno, e non solo in termini geografici. Tanto che una sera di giugno dell’anno scorso, alla fine di un concerto a Borgo Nuovo di neomelodici locali, dal palco ecco partire i ringraziamenti degli artisti intervenuti alla serata: tra i vari nomi, ci sono anche «il signor Rosario e la famiglia Migliore». Vale a dire Rosario Gambino e Baldassare Migliore, riconosciuti evidentemente come tra le persone più attive sul territorio, soggetti di spicco della borgata.
Persino un dottore che va a visitare personalmente a casa Tommaso Inzerillo non resiste alla tentazione di parlargli dei suoi guai. Si sfoga e, tra una prescrizione medica e l’altra, chiede all’anziano boss di mettersi in mezzo in una controversia nata con una ex dipendente. «Lei è venuta per ventiquattro anni, non l’ho mai assunta io, lei lavorava in nero, per i fatti suoi, anche con mio fratello ha fatto un anno in nero… Ventiquattro anni di stipendi, io gli davo 250 euro… Lì veniva per le mance. Ventiquattro anni per duecentocinquanta fa seimila euro… vado a casa sua e gli ho detto che avevo i soldi, mi dice: “No, ora faccio il conteggio e poi ti faccio sapere” – racconta il dottore a Masino Inzerillo -. Minchia! Mi ha fatto arrivare la lettera dell’avvocato…malissimo, allora, all’avvocato gli ho detto: me lo specifica, dove sono arrivate queste 197mila euro, un part-time, sedici ora settimanali, tre ore e mezza al giorno, 8:30-12». Pretese che denotano, secondo lo stimato medico un comportamento riprovevole da parte della storica segretaria. «Male si è comportata», conferma anche il boss, rassicurandolo. «Io rispetto di più a te che tanti professori che si sentono e sono uno più fango dell’altro, con tutta la laurea che hanno – rivela addirittura il medico, rivolgendosi ancora al padrino -. Ti devi interessare in prima persona perché qua il coraggio di dirti no non ce l’ha. Fammi questo regalo di Natale…Gliene dovevo dare sei, te ne offro quindici più del doppio e ancora mi rompi, porco Giuda…e chi si è licenziato, il presidente della Regione Siiciliana?».
Fa impressione leggere oggi queste conversazioni captate dagli investigatori. Non solo per il tenore del dialogo, ma soprattutto considerando che chi le dice, certe cose, palesando rispetto e riverenza appunto, non è un disgraziato qualsiasi che non sa come tirare a campare e, disperato per disperato, si rivolge al mafioso di turno perché tanto nessun altro gli darebbe una mano, una giustificazione che abbiamo sentito troppo spesso e che chiaramente lascia il tempo che trova. Qui a parlare così è un medico, uno che si presume abbia una cultura tale per comprendere il significato e le conseguenze di un atteggiamento simile. A fare impressione, poi, è anche che questa cosa sia accaduta adesso, che non siamo decisamente più negli anni ’80. Gli Inzerillo, insomma, se ne sono andati 30 anni fa lasciando una certa Palermo che, adesso, malgrado il tempo trascorso, sembrano aver ritrovato intatta, quasi fosse rimasta ferma nel tempo. E mantenendo le sue caratteristiche peggiori, tra l’altro. Quelle, per intenderci, di una città compiacente che la mafia o la nega o la cerca, la rispetta e la appoggia.
Ma non c’è solo il medico in fila dietro la porta di Tommaso Inzerillo. Un giorno di settembre dell’anno scorso a chiedere il suo aiuto è «un uomo bassino e con i baffi», la questione è tanto semplice quanto privata e personale: la figlia, appena separata dal marito, si era vista avanzare dal consuocero la richiesta di 30mila euro a fronte delle spese da questi sostenute per la ristrutturazione dell’abitazione coniugale rimasta poi alla donna. «Per non portarla a lungo e raccontare tutte cose, gliel’abbiamo chiusa con trenta mila … con quindicimila euro, hai capito?», si vanta successivamente il boss, soddisfatto di aver fatto risparmiare metà di quella richiesta a quella famiglia che aveva chiesto il suo aiuto. «Trecento euro al mese per cinque anni, buono, glieli do ai miei nipoti», il commento altrettanto soddisfatto dell’uomo baffuto.
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