Il regista Lo Cascio presenta il suo thriller «Mostro gli eccessi, non il senso comune»

Discreto, riservato, quasi timido dentro ai sui vestiti neri. Luigi Lo Cascio si presenta così all’appuntamento con i giornalisti, nell’atrio del cinema King di via De Curtis, dove tra poche ore assisterà alla presentazione catanese del suo primo film da regista, La Città ideale. E’ la storia di un architetto palermitano, Michele Grassadonia, ossessionato dall’ecologia e dall’autosufficienza energetica, che si trasferisce a Siena in cerca della città ideale del titolo. E nella quale vivrà un’avventura giudiziaria ai limiti dell’assurdo.

Pochi minuti per poche domande, «dopo una lunga giornata di lavoro, è molto stanco»,  tiene a precisare il suo collaboratore. «Va bene se ci sediamo qui, tutti insieme?», chiede, con gentilezza, l’attore e regista prima delle domande attorno a un tavolo. «Il suo film è una critica alla magistratura?», gli viene subito chiesto. E lui sorride, sempre educatissimo, rispondendo che «no, solo chi è in malafede potrebbe pensarlo, è un elemento di sfondo nella storia». Già vincitore della coppa Volpi e del premio Ubu, i massimi riconoscimenti italiani per un attore, Lo Cascio con questo film, che definisce un «thriller molto personale», ha già fatto incetta di apprezzamenti e premi. Ma nonostante i successi, di voglia di mettersi in mostra, di egocentrismo, non c’è traccia nelle sue risposte. Che si prendono ben più dei «pochi minuti» programmati.

Il suo personaggio se ne va da Palermo perché crede che la città ideale sia un’altra. Ma lei in realtà è sempre rimasto fedele alla Sicilia. Ha trovato qui la sua città ideale?

«Quello della città ideale è un concetto astratto, che Siena rappresenta bene per la maggior parte delle persone. Perché, oltre alla forma medievale, è una città che coinvolge nella sua vita tutti i suoi abitanti, dal giovane al vecchio, dal ricco al povero. Le città della Sicilia rispondono meno a questo concetto di città armonica, in cui tutto funziona all’unisono. Sono più un incontro di contraddizioni. Ma non è detto che qualcuno non la trovi qui la propria città ideale. Il mio personaggio ritiene che Siena sia la città ideale, ma l’analisi introspettiva ha a che fare con la persona».

Ha detto che l’attore è «una cavia», che mostra all’uomo quello che gli succede in determinate circostanze. Il soggetto del film è in parte l’ecologia. Vuole essere una critica di un «fenomeno» un po’ di moda al momento?

«Col tono, con la presenza in scena, l’attore è uno che va in avanscoperta. Ma è un ruolo che vive con entusiasmo, non da cavia. E no, il film non è una critica a un fenomeno di moda. Qui si mostra solo un ideale che diventa fanatismo. Anziché diventare civiltà, momento d’unione, diventa isolamento. Mostrare queste ambiguità in campo artistico è interessante, si sottolineano eccessi che sono considerati tali perché pratiche ancora lontane dal sentire comune».

Non è la prima volta che dirige se stesso, l’ha già fatto per il teatro. Si sente professionalmente cresciuto dopo aver girato un film? 

«Non c’è qualcosa di progressivo nel passare dal teatro al cinema, sono due cose notevolmente diverse. Ma c’è di certo un salto tra una cosa e l’altra. Mi sono portato dietro le esperienze della regia teatrale, più naturale grazie al rapporto con l’ambiente e gli attori. Quella cinematografica è una esperienza più impegnativa per via dei tempi, è un mondo articolato. Si costruisce, una fase di creazione continua. Al cinema tutto è scandito. Nel momenti del film il regista non vede l’industria che ci sta dietro, ne avverte solo la presenza. E interpretare il personaggio principale è stato un aiuto da questo punto di vista, mi ha messo nella condizione di poter suggerire dall’interno piuttosto che comandare dall’alto. A creare una relazione con il set più orizzontale che verticale. Come si fa in teatro».

Dei riferimenti letterari che hanno ispirato il film si è detto molto in queste settimane, con un riferimento in particolare all’opera di Kafka, visti i guai giudiziari del protagonista. Quali i riferimenti cinematrografici? Magari Fuori orario di Scorsese?

«Dentro di me, mentre scrivevo, sapevo che c’era dentro qualcosa, qualche forma di Fuori orario. L’ho visto anni fa, e mi piacerà rivederlo, per sapere se c’è qualcosa di più che un richiamo alla trama. In fondo è vero che in entrambi i film qualcosa di imprevisto accade ai personaggi una notte. La visione di quel film è comunque lontana. E se nel mio film c’è la presenza di qualche altra opera cinematografica, questo è frutto solo del caso».

E, sempre a proposito del film, recitare con sua madre e mostrare sul grande schermo le foto di suo padre sono una scelta per rendere la pellicola più personale?

«Ho cercato di pensare al film già nel mio studiolo nel modo più personale possibile, con le mie passioni letterarie. Una operazione difficile soprattutto per chi crea un’opera prima. Non mi sono posto il problema del genere, e alla fine è venuto fuori un film che alcuni hanno definito un thriller psicologico, altri un thriller morale. Ma c’è chi l’ha trovato divertente, oltre che drammatico».

Leandro Perrotta

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