Il premio Sciascia a ex boss della stidda Merlo: «La verità è che è un libro scadente»

A Leonardo Sciascia non piacevano le competizioni letterarie. Il premio di Lugano Libera stampa fu uno dei pochi a cui accettò di partecipare. Il critico letterario Emilio Cecchi, invece, quando gli si chiedeva «Maestro, ha letto il mio libro?», rispondeva «No, ma non mi piace». Anche se non l’ha letto, a Francesco Merlo non piace Malerba, il romanzo, edito da Mondadori, che ieri sera si è aggiudicato il premio Racalmare Sciascia: scritto a quattro mani dall’ex boss della stidda Giuseppe Grassonelli e dal giornalista del TG5 Carmelo Sardo. «Una vittoria al cardiopalmo», riporta Malgrado tutto, il periodico diretto dal presidente della giuria, Gaetano Savatteri. Ma nel fragore esploso a seguito delle dimissioni dello storico giurato Gaspare Agnello, indignatosi per la presenza di Malerba tra i finalisti, sono passati inevitabilmente in secondo piano i libri degli altri due concorrenti, Caterina Chinnici e Salvatore Falzone.

Contrariamente al collega Gianni Bonina che è intervenuto nei giorni scorsi sulle pagine di Repubblica Palermo – Merlo non crede che il nocciolo della questione sia etico e restituisce alla letteratura l’affaire Malerba. Ritiene, infatti, che le vere motivazioni del gesto di Agnello siano di carattere letterario: «Era amico di Sciascia – ricorda – Sono portato a pensare che non si sia dimesso perché si rischiava di premiare il libro di un ex boss, ma perché aveva davanti un libro scadente». Il giornalista catanese reputa ingenua la mossa del giurato, perché «ha finito per promuovere il libro che desiderava bocciare».

Il premio Racalmare Sciascia – che non ha nulla a che vedere con l’istituzione di Racalmuto, come desidera puntualizzare il presidente della Fondazione Sciascia, Antonio Di Grado – diventa, comunque, una testimonianza della tendenza a citare auctoritas dello scrittore di Racalmuto a sostegno di tesi contrapposte. Il frastuono più forte del caso Malerba, infatti, è un coro di «che cosa direbbe Sciascia?». C’è chi, indignato, si chiede quante rivoluzioni avrà compiuto stanotte dentro la sua tomba il cadavere dell’autore, alla notizia della vittoria di Grassonelli. E c’è chi si fa filologo, corre a ripescare ora il giustiziere Fra’ Diego, – eretico racalmutese che nel ‘600 assassinò il suo inquisitore e che Sciascia scelse come suo alter ego  – ora l’umanità di Don Mariano ne Il giorno della civetta, e sulla scorta delle prove raccolte concorda con il presidente di giuria Savatteri che «a Sciascia Malerba sarebbe piaciuto».

Francesco Merlo sa bene che l’intellettuale che contraddisse e si contraddisse, le sottrazioni di cadavere bipartisan se l’è cercate. Ma questa volta tocca azzardare anche a lui: «Se un ex mafioso avesse scritto un capolavoro, il primo a esserne fiero sarebbe Sciascia. Qui – sostiene – non siamo davanti né a un capolavoro, né a un ex mafioso, ma ad un espediente letterario per giustificare di essere diventato mafioso».

Azzardiamo che allo scrittore di Racalmuto stia venendo voglia di modificare il suo epitaffio – «Ce ne ricorderemo, di questo pianeta» –  in «Ce ne ricorderemo, di questo libro». E che alle sue orecchie, le argomentazioni del critico che tuona contro Malerba e quelle di chi lo premia, abbiano ormai lo stesso suono. Come l’inquisitore e l’inquisito di un racconto di Borges, che Sciascia citava sempre: nell’aldilà diventavano la stessa persona.

Barbara Distefano

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