Aveva la voce un po’ affannata come quando non si riesce a trovare il cellulare, nascosto chissà dove, che squilla uno, due, tre, volte e proprio non vuole uscire fuori. Io stavo dall’altra parte della linea con un caffè sul tavolo, due penne (una quasi finita e l’altra di scorta), un po’ di sonnolenza repressa, più il mio solito quaderno delle interviste. Poi finalmente Stefano Bollani, appunto con una voce ‘di corsa’ mi fa: «pronto sei tu?». Ed io un po’ stupito che gli rispondo: «sì sono io, se intendi Riccardo Marra, quello dell’intervista».
– «Sì, proprio così, sono tutto orecchie, partiamo».
Insomma l’esordio della mia chiacchierata con uno dei più estrosi jazzman d’Italia è stato un po’ come me l’aspettavo e cioè condito di grande imprevedibilità. Lui, Bollani, d’altronde – rispettando una sua stessa definizione – è un personaggio “surreale”, un artista che non ama solo sedersi al suo piano, suonare la sua musica ed uscire dal palco. Lui vuole conquistare l’emotività del pubblico, frustrarla, pizzicandone le corde giuste. Esattamente come il suo tocco pianistico che luccica, ma poi si fa pensieroso, si veste di colori pastello, ma poi è scontroso in certe tinte scure, è sia dolce che pirotecnico.
Un po’ come il suo criticatissimo amore per il pop e per la canzone… «Perché a un jazzista non è concesso di amare il canto, lo spettacolo e il mondo del pop». E allora per i critici, quelli con occhialini e sguardo severo, la sua collaborazione con Irene Grandi, ad esempio, e le sue partecipazioni televisive ad un programma fortemente ironico e dissacrante come “Crozza Italia” (e forse anche il periodo in cui portava i dread), sono state cadute di stile jazzistico, dove per “stile jazzistico” s’intende rigidità, serietà dell’applicazione accademica ed esclusiva (snob?) sobrietà artistica. C’è una foto significativa a tal proposito, Bollani ‘in croce’ con in mano un cartello con scritto Pianist. Come a dire “crocifisso nello schema del musicista classico”.
Per non parlare poi di quel «viziaccio dal quale Stefano non sa proprio liberarsi»: le imitazioni. Di Battiato, di Branduardi, di Bongusto, di Conte, anticipate dagli irresistibili sketch con Renzo Arbore e anche quelle assoluti deragliamenti di un gusto irriverente, fantasioso e sublime.
E Stefano al telefono sembra deciso nella sua burlona critica alla critica che lo critica, «la domanda è – mi dice divertito al telefono – è piaciuta l’imitazione a Paolo Conte? Se la risposta è sì, che conta il resto?». Perché la ‘faccenda’ del suo naturale spirito lo accompagna da tempo. Lui, nato a Milano, ma cresciuto a Firenze è per molti il Benigni del Jazz, forse per le battute pronte, forse per la cadenza toscana, forse per la collaborazione con David Riondino nel 2004 o forse solo per comodità giornalistica.
Bollani assieme a Jasper Bodilsen e Morten Lund, co-autori di quel “Gleda” che in Danimarca ha ricevuto grandi apprezzamenti, salirà sul palco del CataniaJazz mercoledì 7 Novembre proponendo un mix tra pezzi pianistici dell’artista italiano più qualcuna delle composizioni contenuta in quel disco. «Quello è un disco particolare perché per i danesi fu il risentire canzoni scandinave anni ‘30 e riscoprirle in chiave jazz. I titoli dei giornali danesi scrivevano “guarda, Bollani cos’ha combinato di bello!». Appuntando le risposte sul quadernetto e ridacchiando del suo delirio di piccole battute, cambi di passo e discorsi, decido che la domanda da porre in chiusura intervista (“perché proprio tu ad aprire il 25°anno di CataniaJazz?”), era del tutto superflua. Bollani è l’essenza del jazz che si mostra. Ovvero quella inqualificabilità del (non)genere più scaltro, cangiante e reattivo della storia della musica moderna.
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