Il pentito Riggio, dalla penitenziaria a Cosa nostra Tra i pizzini dello Zio, gli attentati e i servizi segreti

Dalla polizia penitenziaria alle fila di Cosa nostra. È questo il percorso che compie Pietro Riggio, collaboratore nisseno sentito oggi a Caltanissetta come imputato di reato connesso al processo d’appello Capaci bis, che vede imputati Salvatore Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo, Vittorio Tutino e Lorenzo Tinnirello. Dalla penitenziaria viene destituito nel ’98, appena finisce coinvolto nel blitz antimafia Grande Oriente. Gli viene contestato il concorso esterno, «non ero ancora ufficialmente un uomo di Cosa nostra». Ma il passo, in realtà, è breve. «Dal settembre 2000, una volta fuori, ho fatto parte della famiglia mafiosa di Caltanissetta – spiega lui stesso -. Una volta uscito si sono attivate una serie di dinamiche che mi hanno visto protagonista, quindi ho deciso di entrare a far parte di Cosa nostra».

«Le ragioni – spiega ancora – in un primo tempo sono state dettate dal fatto che avevo un cugino che faceva parte della famiglia mafiosa di Gela, visto che avevo perso il lavoro perché ormai destituito, lui mi aiutò. Non c’è stata un’affiliazione vera e propria, sono stato presentato direttamente al responsabile provinciale Angelo Schillaci della famiglia di Campofranco, che sapeva tutta la mia situazione». Il ruolo che gli viene subito affidato, nell’immediato, è quello di occuparsi della messa a posto di tutti gli imprenditori della città e di tutti lavori pubblici, lì a Caltanissetta. «Piano piano il mio raggio d’azione cominciò ad allargarsi ad altre province siciliane, da Agrigento, Palermo, Enna, Catania, ho avuto a che fare con personaggi della consorteria mafiosa di quelle città». Conosce, ad esempio, i fratello Maranto di Polizzi Generosa. E Provenzano? «Ci sono stati con lui dei rapporti indiretti, tra il 2002 e il 2003, quando fu bandito l’appalto per la diga di Blufi: fui costretto a interessarlo per quanto concerneva la fornitura di inerti – racconta -, sono rimasto basito del fatto che se ne dovesse occupare una ditta di Bagheria, quando invece le cave ricadevano una su Resuttano e una su Caltavuturo. Mi allarmai e scrissi una lettera per Provenzano che affidai a Schillaci. Dopo un mese mi arrivò una sua risposta».

I contatti, sempre in maniera indiretta, ci sarebbero stati anche in un’altra occasione, relativa «a un appalto che interessava diversi paesi in provincia di Palermo, da Cerda, Aliminusa, Alia, Valledolmo, Prizzi e altri. Io fui incaricato dalla dottoressa Brancato di fare una sorta di collegamento per la messa a posto per questi paesi che stavano realizzando le opere di metallizzazione, al fine che non accadesse nulla – racconta -. Si trattava di otto paesi. Dopo circa un mese la risposta di Provenzano fu che dovevo mettermi da parte, perché ci avrebbe pensato il responsabile di ogni paese». In una terza occasione, invece, i suoi contatti col padrino sarebbero stati nell’ambito della costruzione di un’isola ecologica a Belmonte Mezzagno da parte di un imprenditore riconducibile allo Zio «che andava trattato bene – dice -. Motivo per cui, per questa raccomandazione arrivata anche direttamente da Provenzano, non gli fu chiesta alcuna messa a posto, in segno di rispetto. Però, l’imprenditore mi ha comunque voluto consegnare circa ottomila euro per quel servizio, mi ha dato addirittura di più».

Riggio decide di collaborare in seguito all’ultimo arresto, l’8 luglio 2008. Tra i suoi racconti ai magistrati, c’è spazio anche per le sue presunte conoscenze con soggetti vicini ai servizi segreti. «Diciamo che dei contatti li ho avuti, poi se erano servizi segreti o pseudo tali non devo essere io a dirlo – osserva il collaboratore -. Comunque li ho avuti, sin dalla prima carcerazione, da novembre ’98 fino a marzo 2000, quando ero nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere. Poi dalla mia uscita fino al 2003. E ancora di nuovo nel carcere militare, dal marzo 2004 al 2008. Nel carcere militare eravamo tutti ex appartenenti alle forze dell’ordine, lì ho conosciuto diverse persone. Giuseppe Porto della Digos, Giovanni Peluso ispettore della questura di Roma, De Nicola della questura di Napoli, tutti della polizia di Stato, in carcere per reati vari. Per quello che ho saputo io – torna a dire -, sia Peluso che Porto hanno avuto a che fare coi servizi segreti, non so se ne fossero parte integrate. So che Peluso aveva fatto parte del Sismi per otto anni. C’è anche Francesco Vacca, pure lui aveva aderenze coi servizi segreti, era un tiratore scelto della polizia di Stato ed era stato nella scorta dell’onorevole Spadolini a Firenze».

Dei servizi segreti, però, Riggio non racconta solo delle sue conoscenze e dei suoi contatti durante e dopo la detenzione nel carcere militare. Ai magistrati, infatti, racconta anche di un loro presunto coinvolgimento nella strage di Capaci. E fa riferimento, in particolare, a una donna dei servizi segreti libici. Un aspetto che verrà approfondito da avvocati e magistrati all’udienza successiva del processo Capaci bis, tra dieci giorni. «Io ho fatto almeno dodici colloqui investigativi, due di questi riconducibili al Ros di Caltanissetta, mentre gli altri dieci non si sa, non ne ho trovato traccia nel mio fascicolo personale», aggiunge Riggio alla fine del suo racconto. Un altro elemento che, con tutta probabilità, verrà approfondito in seguito. Intanto oggi, a fine udienza, sia Tutino che Madonia hanno chiesto di poter fare delle dichiarazioni spontanee. Entrambi hanno sostanzialmente chiesto la ricusazione della presidente della corte d’assise d’appello e del giudice a latere, poiché entrambi hanno celebrato il processo Borsellino quater e quindi, a dire della difesa, incompatibili a giudicare i due imputati. 

Silvia Buffa

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