Il palermitano Stefano Savona apre Magma 2018 «L’animazione per raccontare il passato di Gaza»

Con la proiezione del film La strada dei Samouni, prende avvio oggi la 17esima edizione del concorso internazionale di cortometraggi Magma – Mostra di cinema breve, promosso dall’associazione culturale Scarti di Acireale. Si accendono così i riflettori sul formato cinematografico breve – al quale non viene sempre dato il giusto spazio nei maggiori canali di distribuzione – e su giovani registi provenienti da tutto il mondo. Un evento reso ancor più allettante dall’incontro tra diverse generazioni di cineasti, affermati ed emergenti. La programmazione del concorso si arricchisce, infatti, anche della presenza di importanti figure del cinema internazionale, ospiti del festival fin dall’apertura, affidata per la prima volta alla proiezione di un lungometraggio, opera del pluripremiato regista palermitano Stefano Savona, vincitore dell’Oeil d’or al Festival del cinema di Cannes 2018 per il miglior documentario. MeridioNews lo ha intervistato.

Iniziamo proprio dal tuo documentario. La Strada dei Samouni racconta la storia drammatica di una famiglia di contadini palestinesi decimata da un bombardamento israeliano. Come hai conosciuto i Samouni?
«Ero a Gaza dove stavo girando un altro film, Piombo fuso. Era il 2008 ed era in corso una violenta campagna militare israeliana. Tenevo un diario di viaggio e pubblicavo ogni giorno un cortometraggio direttamente da Gaza per raccontare i giorni della guerra. Quando la guerra è finita ed ero pronto per tornare a casa, mi sono ritrovato in un quartiere a Sud di Gaza city, dove ho conosciuto i Samouni, una famiglia di contadini che qualche giorno prima aveva perso 29 dei suoi membri durante il bombardamento».

Quando hai deciso che sarebbero stati i protagonisti del tuo documentario? E Perché?
«Ho deciso quando sono tornato a casa, a Parigi. Riguardando le immagini ho avvertito che era necessario condividere la conoscenza che avevo dei loro racconti con lo spettatore. All’inizio non sapevo ancora che la loro storia sarebbe divenuta oggetto del mio documentario; filmavo quello che era accaduto a dieci giorni dalla guerra, ascoltavo le storie delle persone che vagavano. Ho iniziato a filmare, ma non sapevo cosa avrei fatto di queste immagini. Pensavo di fare un altro cortometraggio a dire il vero; ma poi ho iniziato a parlare con i Samouni, specialmente con i bambini – che sono diventati i protagonisti principali del film – e colta la complessità della loro storia, mi sono reso conto della possibilità che avevo di raccontarla partendo da lontano. E allora ho deciso di rimanere insieme a loro per un mese».

Quindi decidi di vivere insieme a loro la fase immediatamente successiva alla guerra. Il tuo film, infatti, sembra essere dominato dal tema della ricostruzione.
«Sì, quando sono tornato in Europa mi sono reso conto che non volevo raccontare ciò che era successo soltanto come una storia di distruzione; i film sulla Palestina, specialmente i documentari, sono nel 90 per cento dei casi il risultato di qualcosa in cui si arriva troppo tardi, in cui si racconta una tragedia già successa, che non è possibile raccontare al punto giusto. Il mio desiderio principale era invece quello di ricostruire attraverso il cinema, raccontare – d’altronde è questo il compito del cinema – ma non solo attraverso i desideri successivi. Bisogna ricostruire anche il passato. Allora, dopo aver ricevuto una chiamata da parte degli stessi Samouni, ho deciso di ritornare, passare altri due mesi con loro. Lì ho girato moltissime immagini sulla ricostruzione del loro passato. Mi hanno infatti raccontato moltissime storie sulla famiglia prima della guerra, sui famigliari che erano morti, sul villaggio prima del bombardamento. Allora mi sono detto che era necessario ricostruire questo mondo che non c’era più e che dovevo farlo con l’animazione».

Che funzione ha avuto per te l’animazione all’interno del tuo documentario?
«Direi che l’animazione è la parte più etnografica del documentario. Era infatti importante per me che la parte animata fosse totalmente tratta dalla loro storia, della quale non ho inventato nulla, fino nei dettagli più particolari. Quando c’è un evento traumatico si riduce tutto ad una pagina bianca e chiunque può scriverci quello che vuole tacciandolo per passato o tradizione o strumentalizzando quello che è successo. La funzione dell’animazione nel mio film soddisfa in questo senso quell’esigenza di verità che non è spettacolarizzazione, ma piuttosto ricostruzione di storie individuali».

Per la parte animata hai deciso, tra l’altro, di affidarti alla mano di Simone Massi, uno dei maggiori artisti dell’animazione in Italia e già protagonista in passato del Magma Festival.
«Sì, volevo raccontare la storia dei Samouni come personaggi che agivano e non volendo approdare ad un film di finzione, ho voluto mettere gli stessi protagonisti in scena in un passato che non ho potuto filmare. Non potevo, infatti, reinventarmi un universo che non avevo conosciuto. Poi sono entrato in contatto con Simone Massi e i suoi disegni e mi sono reso conto di volere quel tipo di immagine per l’animazione del mio film. Simone racconta storie di contadini italiani, io storie di contadini palestinesi. Ho pensato che ci fossero dei punti di sincronizzazione tra il mio modo di raccontare e l’illustrazione di Simone, fatta a mano, un po’ sporca e disordinata, come la realtà di Gaza che ho deciso di raccontare».

Rossella Cirrone

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