Il Paese delle Bande Nere

«Leonardo Sciascia ha scritto: “L’Italia è un paese senza memoria e senza identità. E io per questo non dimentico”. Forse è la stessa ragione per la quale io ho scritto questo libro, per parlare di identità che verranno dimenticate». Così Paolo Berizzi, giornalista de ‘La Repubblica’, spiega perché ha deciso di scrivere un libro come “Bande nere”, edito da Bompiani, su “come vivono, chi sono, chi protegge i nuovi nazifascisti”.

Al CPO Experia, venerdì pomeriggio, l’autore ha raccontato la sua inchiesta, ha mostrato le fotografie che compongono un sostanzioso inserto del lavoro che ha svolto e ha lasciato spazio al dibattito.

Milano, Verona, Bergamo… Politici che salutano e abbracciano pregiudicati, condannati per istigazione alla violenza, all’odio razziale, per apologia del fascismo. Uomini che stringono la mano ad altri uomini, esponenti politici del quadro nazionale i primi, ammiratori di Hitler i secondi, che siedono in consigli comunali e si fanno immortalare mentre fanno il saluto romano davanti ad un poster del dittatore tedesco. Fanzine che hanno, in copertina, un naziskin che brinda con, sullo sfondo, l’ingresso del campo di concentramento di Auschwitz: solo che, al posto di “Arbeit macht frei”, c’è la pubblicità di una birreria.

Manifestazioni che, nel momento stesso in cui si svolgono, sono un tragico sberleffo alla legge Mancino e all’articolo 139 della Costituzione, che vieta la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista. 

Step1, al termine della presentazione del volume, ha intervistato l’autore. 

“Bande nere” è un romanzo-inchiesta alla maniera di “Gomorra”, o semplicemente un saggio sul nazifascismo?
E’ un saggio sul nazifascismo fatto di racconti, di storie, di fatti. E’ un saggio nel quale, volutamente, ho sospeso il giudizio su quello di cui scrivevo, poiché lo ritenevo inutilmente deformante. Ho preferito fotografare una realtà in movimento – cosa che credo debba fare un cronista che cerca di svolgere bene il suo lavoro – astenendomi dal lasciar emergere opinioni. Quella di “Bande nere” è una realtà che, secondo me, andava raccontata e ho ritenuto che la maniera migliore per farlo fosse un saggio che non avesse nessuna voglia di ammiccare al romanzo, di cedere a inutili fronzoli. 

Su quali dati si è basato per scrivere il suo libro?
Sono andato nei luoghi del neofascismo italiano, nei circoli, nelle sezioni politiche, nelle piazze, nelle scuole, nelle università, nelle curve degli stadi. E sono andato su internet, che è la nuova frontiera del nazifascismo: ci sono moltissimi siti che inneggiano alla superiorità della razza bianca nel mondo, che negano l’Olocausto, che guardano a Mussolini ed Hitler come a dei modelli. Mi sono mosso in quei terreni, mondi fatti per lo più di giovani e giovanissimi. 

E le sue fonti?
Alla base di “Bande nere” c’è un numero: 150.000 italiani sotto i trent’anni vivono nel culto del neofascismo e, non tutti ma molti, nel mito di Adolf Hitler. E’ una cifra che esce dalle indagini e dalle proiezioni anche elettorali, del mero voto politico. I cinque partiti ufficiali che oggi vivono nella galassia nera, raggiungono, messi assieme, l’1,8%. Una massa critica che oscilla tra i 450 e i 480 mila voti; scorporando tra questi la fascia giovanile, si arriva al numero di cui sopra. C’è da tenere conto, però, che il voto dell’estremista di destra è liquido, coperto, difficilmente tracciabile e circoscrivibile. Quindi si è ritenuto che 150.000 sia una cifra attendibile, alla luce di tutte le variabili precedentemente elencate. 

“Bande nere” ha una nutrita sezione fotografica. Ha ricevuto critiche o pressioni per la pubblicazione di questi scatti?
Forti critiche e forti pressioni. La scelta dell’inserto fotografico non è stata dettata dalla voglia di destare clamore, ma dal provare, con immagini immediate, quello che ho raccontato. Alle pressioni si uniscono le minacce: gli estremisti di destra hanno accolto questo libro con grande irritazione. Io credo che questo sia dovuto al fatto che “Bande nere” non è un libro schierato o fazioso. E’ un libro di denuncia, e questo ha molto infastidito i militanti della destra radicale di oggi. 

E la sinistra?
La sinistra è curiosa. Il pregio di questo libro è quello di diventare materiale fruibile sia a destra sia a sinistra. Il militante di destra vuole capire come evolve un mondo in pieno fermento; il militante di sinistra sa che l’antifascismo è un valore fondante della nostra Costituzione, e il mio libro lo aiuta a capire un nuovo universo. 

Lei ha dichiarato che alcune storie le sono state raccontate dai diretti interessati, e che altre le ha raccolte presentandosi sotto mentite spoglie…
Be’, alle testimonianze in chiaro va fatta una tara. Sono dichiarazioni che vanno scremate. Bisogna ricordare che sono fornite ad hoc. Ci possono essere forzature, omissioni, aspetti volutamente ignorati. Il racconto fatto ad un cronista che non si presenta come tale ma che va in un luogo sotto mentite spoglie è più attendibile, in presa diretta, semplicemente più vero. 

Lei ha scelto di presentare il suo libro al CPO Experia. Conosce la polemica nata attorno ai centri sociali catanesi?
Credo che quello che è successo e sta succedendo a Catania rispecchi quello che sta accadendo in altre città in Italia. I centri sociali sono visti dal Palazzo, dalla politica, come dei luoghi quasi infetti, dove non solo non si fa cultura, ma addirittura si fa controcultura. Il CPO Experia, qualcuno ha detto, è luogo di degrado. Io credo che i centri sociali come l’Experia facciano vivere una città, le diano colore e contenuto, se le attività che svolgono aiutano i cittadini. Poi, ognuno è libero di scegliere se frequentare un centro sociale di destra o di sinistra, ma se propugnano dei sani valori, ben vengano! 
 

Luisa Santangelo

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