Il Paese dei giustizieri

Grazie al cielo, la spedizione punitiva contro i cittadini stranieri e i loro negozi nel quartiere romano del Pigneto “non aveva una matrice politica”. Grazie al cielo? Vediamo.

Un maturo adulto italiano, accompagnato da un paio di giovani, si presenta di mattina – alle dieci e mezza, prendete nota dell´ora – nel negozio di alimentari di un signore indiano e apostrofa, a quanto pare, un avventore chiamandolo Mustafà, e intimandogli di restituire il portafoglio che gli sarebbe stato rubato, completo di 500 euro e documenti. Se no, avverte, torno oggi pomeriggio e sfascio tutto. Considereremo in effetti questo antefatto, piuttosto che politico, come una tappa di quell´impulso irresistibile a fare da sé, a mettersi in proprio, che va attraversando la penisola, dalle ronde alle passeggiate notturne ai roghi dei campi rom. Un episodio, diciamo, di sussidiarietà. Ritorna lo Stato, e l´intendenza lo precede, con la fanfara. Perché telefonare allo Stato, e dunque denunciare un furto, e denunciare il supposto autore del furto, quando possiamo fare da noi?

Questa vocazione sussidiaria si conferma alle 17.15, quando una squadra di una ventina di italiani di ceppo, in parte travisati in parte no, si presenta all´appuntamento e fa giustizia di alcuni stranieri in regola – giudicati comunque guaribili, quelli che si prendono la briga di presentarsi a un pronto soccorso – e delle loro regolari botteghe, tre, un bar, un alimentari, e un call-center. E´ un notevole segno di coesione popolare e di spirito di iniziativa, il reclutamento apolitico (cioè né approntato da nostalgia neonazista, né da oltranzismo calcista) di una ventina di persone pronte a menare e sfasciare, nel giro di poche ore, e in piena luce del sole. L´inchiesta appurerà altri dettagli marginali, per esempio se Mustafà sia il nome di un ladruncolo reale, o, com´è più probabile e lusinghiero, un eponimo di qualunque straniero, regolare o irregolare, si trovi a passare per il Pigneto e in generale per questo mondo. Noi di qua – con dei fazzoletti sulla faccia, magari – e loro – tutti i Mustafà della terra – di là.

Noi siamo riconoscibili, nonostante i fazzoletti, dal modo in cui pronunciamo: “Bastardi!”, a bocca piena e umida, come abbiamo imparato dal doppiaggio dei film sul Bronx di una volta. Loro sono riconoscibili perché stanno di là, i bastardi. Il lunedì di Pasqua del 1282, nella Palermo del Vespro, dove un dannato soldato francese, si dice, molestò una sposa siciliana di singolare bellezza pretendendo che nascondesse armi sotto le vesti, si scatenò la caccia ai francesi con quel mirabile stratagemma di far loro pronunciare il nome “ciciri”. Ecco, al Pigneto, e un po´ dappertutto, basterà apostrofare la gente con lo shibboleth “Mustafà”, e darle il fatto suo.

Così ricostruita, la storia, grazie al cielo, “non ha una matrice politica”. E´ un´altra cosa, più rassicurante. E´, appena decentrato, uno scontro di civiltà. Basterà chiamare, a cose fatte, il carro attrezzi. La sicurezza, si dice, non è né di destra né di sinistra.

Non è vero, naturalmente. E´ vero invece che a ogni proclamazione roboante dell´allarme sicurezza, a ogni annuncio stentoreo che d´ora in poi la tolleranza è morta, chi abbia la faccia da straniero in Italia, irregolari, regolari e perfino cittadini italiani (come la maggioranza degli zingari) trema per la sicurezza dei propri cari e delle proprie cose.

L´idea pubblica che il soggiorno irregolare in Italia sia per sé, senza la commissione di alcun delitto, un reato, passibile di galera, è terribile, ed eccita la tracotanza e la brutalità privata. Recludere per un anno e mezzo nei cpt persone di niente colpevoli, con il proposito – del tutto irrealistico – di impiegare una simile eternità per appurarne l´identità, ecco un´altra idea che fa venire i brividi. Vuol dire che nemmeno per un momento chi pronuncia la formula “diciotto mesi” ha pensato davvero a che cosa siano diciotto mesi di giorni e notti trascorsi dentro un surrogato di galera in cui diventare pazzi a mucchi. Pazzi – o morti prima. Se non bastasse il titolo che ciascuno di noi, senza eccezioni, ha a curarsi del destino dei propri simili, invocherei a mio titolo l´esperienza di che cosa voglia dire un giorno in una cella, e una notte in una cella. Migliaia di notti.

L´altroieri – perché in questi giorni, come per una malignità della sorte, tutto sembra darsi convegno – Hassan Nejl, 37 anni, marocchino di Casablanca, è stato trovato morto nella cella numero 2 del nuovo Cpt di Torino. Vi era “trattenuto” – ah, le tenerezze della lingua! – da dieci giorni, per un decreto di espulsione. «Era nel suo letto con la schiuma alla bocca. Abbiamo urlato tutta la notte per chiamare i soccorsi, ma non è venuto nessuno». Polmonite, secondo le prime dichiarazioni del prefetto. “Ho perso la voce a furia di urlare – dice il suo compagno di camerata – a mezzanotte e quarantacinque gridavamo tutti. Dopo un po´ è arrivato un addetto della Croce Rossa. ‘Fino a domani mattina non c´è il medico´, ha spiegato. Poi se n´è andato. Hassan si è steso sul suo letto, era caldo, stava malissimo… ». Alle 8 di mattina il medico di guardia ha constatato il decesso. Tutti gli immigrati hanno annunciato lo sciopero della fame: «Qui siamo come in un canile, dove se abbai nessuno risponde». Ho anche questo titolo più specifico: che sono ancora a questo mondo perché in una notte di cella i miei compagni persero la voce a furia di urlare, e venni soccorso. Al Cpt torinese non è successo. Si può essere “trattenuti” per due mesi, finora: vi sembra poco, per accertare un´identità personale? E di che cosa diremo che sia morto Hassan Nejl: di polmonite?

Tutto si è dato convegno in questi giorni. I roghi di Ponticelli e la guerra di Chiaiano, gli assalti omofobi e il raid di Pigneto e lo sventurato – “ultrà laziale, pariolino, tossicodipendente, senza patente”… – che ha spezzato la dolce vita di due giovani romani. In quanti posti deve andare in pellegrinaggio il nuovo sindaco di Roma. Al Pigneto, scrive qualcuno, citando bei nomi, da Pasolini a Luxuria, finora la vita era bella, e la convivenza cordiale. Qualcun altro obietta che c’era la stessa febbre che ha acceso tutte le periferie un tempo operaie e popolari, ora degradate da una contiguità non voluta e spaventata. Qualcuno ha manifestato contro la vergogna del raid punitivo, qualcun altro aveva applaudito mentre si svolgeva. Chissà.

Bisogna pensare, in questi giorni, alla vecchia questione della guerra fra poveri, e più precisamente all´intimità detestata cui sono costretti gli ultimi e i penultimi. Vi ricordate quel giudizio di un operaio di fabbrica, per spiegare il voto: “La sinistra ormai va solo dietro ai gay e agli zingari…”.

Non si può sfuggire alla condanna per cui stare con gli ultimi debba significare tradire i penultimi – o esserne traditi? I fascismi e i razzismi se ne nutrono. Benché abbia imparato a maneggiare con cura le cose fragili, e a tener conto del deposito del passato, senza illudermi di tabulae rasae e di nuovi cominciamenti, sono tentato da qualche domanda senza pregiudizi, di quelle che vedono il re nudo, di quelle da vigilia di un Sessantotto.

Se si assegnasse qualche casa ad affitto agevolato a zingari o migranti in regola ai Parioli e in altri quartieri medioalti, accostando gli ultimi, se non ai primi, almeno ai secondi e ai terzi, e mettendo qualche distanza fra ultimi e penultimi? Così, per vedere l´effetto che fa. La questione in fondo non è così paradossale, è quasi evangelica: in quale cortile metteremo la prossima discarica?

 

[Da “La Repubblica” del 26-05-2008 – Grazie a Isa per la segnalazione]

Adriano Sofri

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