Cronaca

Il mistero sulla morte di Kitim Ceesay a Palermo. «Su di lui scritte cose non vere. Alcuni sanno tutto, ma hanno paura»

La morte di Kitim Ceesay è avvolta sempre più in un velo di mistero. Il gambiano di 24 anni se n’è andato in un silenzio assordante, la notizia è arrivata al pubblico dominio solo dopo il decesso, arrivato dopo giorni di agonia in ospedale. Pare che il giovane sia stato investito da un’auto e poi accoltellato, ma saranno le indagini della magistratura a dare forse una risposta a quanto accaduto nei pressi di Porta Sant’Agata, a Ballarò. Intanto oggi la comunità gambiana ha indetto una manifestazione sui luoghi in cui l’agonia di Kitim è iniziata. Una comunità contrariata, soprattutto dalle diverse versioni sulle cause di un omicidio che ha lasciato tutti sgomenti.

«Conoscevo bene Kitim – dice a MeridioNews Ousman Drammeh, portavoce della comunità gambiana di Palermo – lo conoscevo fin da quando è arrivato in Italia. Come tanti di noi aveva attraversato il deserto per venire qui, dove è stato accolto come minore non accompagnato nel 2016, quando aveva 16 anni». Una volta in Italia, il giovane Gambiano si è subito dato da fare. «Ha studiato – continua Drammeh – si è preso la licenza media e ha cercato lavoro. Aveva un figlio piccolo e una compagna incinta, che come noi non crede alle cose che sono state scritte in questi giorni. Per questo oltre a collaborare con la magistratura abbiamo deciso di indagare anche noi come comunità, per vedere se riusciamo a capire qualcosa in più».

«Hanno detto che è stato ucciso per una questione di spaccio di droga – dice ancora il portavoce della comunità gambiana – ma non è la verità, hanno detto che è stato ucciso perché aveva rubato un telefono, ma non è la verità. Hanno anche detto che è stato ucciso da un italiano per una questione di soldi, ma non è la verità. Quello che sappiamo è che ancora devono essere sentiti i testimoni, ma a parte loro ci sono anche altre persone che sanno cosa è successo, ma ancora non sono pronte a parlare. Non sono pronte perché hanno paura di fare la stessa fine del ragazzo».

Gabriele Ruggieri

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