Il lager per minori scoperto a Licata  Incubo finito grazie a due insegnanti

«Disumano quanto avvenuto a Licata». È la ministra Beatrice Lorenzin a commentare con un tweet quanto scoperto dai carabinieri nel Comune dell’Agrigentino, dove la comunità per minori disabili gestita dalla cooperativa Suami era diventata teatro delle peggiori violenze. «In Parlamento è fermo da troppo tempo il mio ddl con pene più severe per chi maltratta persone disabili», aggiunge l’esponente del governo Renzi. Nella storia di Licata, ancora una volta, il paradosso è che a perpetrare i soprusi sarebbero quegli stessi educatori sui quali si fa affidamento per la cura degli ospiti delle strutture. 

Nell’ambito dell’operazione Catene spezzate, nel mirino degli inquirenti sono finite otto persone, tra le quali cinque sono destinatarie di misure cautelari su ordinanza del Gip Alessandra Vella. Protagonista della vicenda appare Caterina Federico, adesso ai domiciliari: è lei, stando a quanto emerge dalle indagini, a muovere le fila della comunità e a impartire ordini e direttive ai suoi collaboratori. Angelo Federico, Domenico Savio Federico e Giovanni Cammilleri, colpiti dal divieto di dimora nella provincia di Agrigento, sarebbero, invece, gli esecutori materiali delle punizioni inflitte ai ragazzi in cura presso la cooperativa sociale Suami. Infine, Salvatore Lupo, amministratore della Onlus e ora interdetto dall’esercizio dell’ufficio direttivo della stessa, avrebbe la responsabilità di non aver impedito le condotte dei primi. 

Un ruolo chiave, ma in positivo, lo avrebbero anche due insegnanti di un istituto privato che, per prime, hanno segnalato ai carabinieri di Licata la situazione di emergenza nella quale versavano gli ospiti della comunità adesso posta sotto sequestro preventivo. Tutto inizia, infatti, quando una delle ragazze vittima delle violenze scrive e consegna alla propria docente un tema nel quale si immedesima in «una principessa che sta facendo un incubo, in una casa da sola con una strega che tiene tutti i ragazzi in una casa con i suoi complici», «una strega cattiva e crudele che riempie di medicinali quelli che non hanno famiglie, li addormenta e li picchia». Anche un’altra insegnante raccoglie le confidenze della giovane alunna, la quale le racconta di essere stata scoperta da «uno della comunità» mentre scriveva una lettera indirizzata alla preside della scuola ed essere stata messa in punizione, chiusa in una stanza e a digiuno

Questi, dunque, i campanelli d’allarme che portano le due docenti a riferire ai militari dell’Arma quanto appreso dalle studenti. Ma non finisce qui: una delle ragazze racconta anche altre angherie che lei e i suoi compagni subiscono da parte degli educatori: c’è chi viene legato a una sedia con il nastro isolante per diverse ore, chi deve sopportare percosse, bastonate e mollette sul naso, chi, addirittura, è costretto a mangiare i propri escrementi. E ancora: divieto di contatti telefonici con la famiglia, continui ricatti, immobilizzazione con catene di ferro, l’impiego di minori e altri disabili in diverse mansioni lavorative, anche molto degradanti, all’interno della struttura. 

Tutto, però, doveva rimanere all’interno della casa-alloggio, tanto che la stessa Federico in un’occasione telefona al fratello, Domenico Savio, dicendogli testualmente: «Ci sono due pattuglie di fronte alla comunità, non la fate urlare», riferito, probabilmente a una ragazza affetta da patologie psichiche e residente presso la Suami. In un altro episodio, l’educatrice esorta gli altri operatori ad applicare «la pomata» sui lividi di una dei minorenni, per evitare che fossero visibili gli ematomi provocati dalle legnate che riceve. Ogni volta che gli ospiti della comunità parlano con i propri cari, poi, c’è sempre qualcuno del personale a monitorare la conversazione. 

Nel frattempo le ispezioni e le intercettazioni che gli investigatori mettono in atto tra il dicembre 2014 e il febbraio 2015 iniziano a confermare il contenuto delle segnalazioni. Si delinea pian piano ciò che la comunità Suami, secondo l’accusa, è stata per i suoi ospiti: una trappola dalla quale le vittime sono riuscite a liberarsi soltanto grazie al coraggio di chi ha denunciato. Adesso inizierà l’ennesimo processo che cercherà di fare luce sulla vita all’interno delle comunità, mentre agli occhi dell’opinione pubblica la diffusione di questi istituti inizia ad apparire un fenomeno preoccupante.

Gino Pira

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