Il grande sogno di Falcone e Borsellino

Questo scritto è tratto dal libro “1992-2012 vent’anni dopo” per gentile concessione dell’editore Coppola e dell’autore, peraltro collaboratore della prima ora del nostro giornale

Ci sono giorni che s’imprimono nella memoria e segnano le nostre vite. Il 25 aprile lo ricordiamo per la liberazione dal nazifascismo, il 2 giugno la Repubblica soppiantò la monarchia. Il 12 maggio l’Italia compì un passo avanti nella conquista di diritti di civiltà rendendo non indissolubile il matrimonio e meno infelici le persone che avevano smesso da tempo di amarsi. L’8 settembre il paese martoriato da venti anni di dittatura voltò pagina e si aprì al cambiamento.

Il 23 maggio del 92 è la data dell’infamia ma anche dell’inizio del riscatto. Eppure l’uso del tritolo non era nuovo per la mafia. Nove anni prima, in un giorno di luglio che purtroppo facilmente si dimentica, un’auto imbottita di esplosivo venne fatta saltare davanti uno stabile in via Rapisardi a Palermo. Morirono quattro persone. Una di loro era Rocco Chinnici il precursore del pool antimafia.

Il 3 settembre dell’anno prima era stato abbattuto il simbolo della risposta dello stato alla tracotanza mafiosa: il generale Dalla Chiesa. E forse perché a volte il tempo delle tragedie è raccontato da grani di sangue, il decennio che va dal 1982 al 92 è costellato non solo dall’uccisione di tutti i vertici politici, istituzionali, investigativi, ma dalla voglia di acquisire attraverso il terrore una zona franca per il potere mafioso.

Ma Falcone era diverso. Negli anni dell’assalto allo Stato, della sfida aperta, della mafia che padroneggia la politica, lui non resta nel chiuso del Palazzo. Non solo firma gli atti per condurre in galera centinaia di uomini abituati all’impunità. Falcone si espone, rilascia interviste ai giornali di tutto il mondo, viaggia, ha relazioni solide con i corpi investigativi internazionali. E’ l’uomo che fa tremare la mafia attaccandola in uno dei miti più solidi: la sua invincibilità.

Uscendo dal santuario di palazzo di Giustizia e spettacolarizzando la lotta alla mafia, Falcone entra nelle nostre vite, rende popolare una battaglia che la gente comune preferisce relegare tra le cose spiacevoli da non ricordare. Apre un varco nel muro di omertà. Gli uomini della mafia in fuga dai loro killer di lui si fidano e parlano, svelano, chiariscono. La letteratura deve aggiornarsi, la legislazione deve essere rivista, si parla di patrimoni, di premi al pentimento: una rivoluzione. E noi ci abituiamo a lui, alle sue vittorie, alle sue battute sarcastiche o solo di buon senso. E vediamo uno spiraglio di luce in fondo al nero tunnel delle stragi e del prepotere mafioso. Sì, perché se non si ricorda la Palermo degli anni Ottanta non possiamo capire il sentimento e le emozioni del maggio del 1992.

E non basta ricordare i mille omicidi tra il 1980 e il 1983. La guerra che trasforma la città in un mattatoio. Occorre ricordare le decine di vittime estranee alle cosche che cadono solo perché ad incrocio hanno tamponato l’auto di una squadra della morte, o hanno rifilato un prodotto malfatto a un boss. O i nomi dimenticati di imprenditori: Donato Boscia, Piero Patti, Paolo Bottone, Giuseppe e Salvatore Sceusa, Vincenzo Miceli, colpevoli di avere pronunciato un no di troppo, di non avere aderito alle richieste estorsive.

Dove prima bastava trasferire un investigatore o un magistrato per far crollare il patrimonio investigativo che avrebbe potuto incastrare le cosche, adesso si stende una rete di relazioni tra magistrati e organi investigativi che utilizzano le nuove tecnologie, che studiano strumenti nuovi, che precorrono le leggi. E i risultati arrivano. Arresti a centinaia, i segreti affiliativi messi a nudo, le alleanze studiate, l’organigramma che affiora. E se un condottiero appare credibile e affidabile le defezioni del campo trovano un riferimento. I grandi capi sconfitti vogliono incontrare Falcone per raccontarsi o per capirlo meglio. E si inizia a sperare. Ai pubblici incontri è accolto da ovazioni, il potere ufficialmente lo esalta e segretamente lo avversa. Inizia a diffondersi quel sentimento di comunità che si tradurrà negli anni seguenti in coscienza diversa: esporsi e denunciare invece di indebolire, rafforza.

Quando in un pomeriggio di tarda primavera arriva la notizia dell’attentato, non sopraggiunge solo il dolore per un gruppo di vite disintegrate, c’è il colossale sconforto per l’ineluttabilità di un destino. Se anche quell’uomo è caduto, allora occorre rassegnarsi, convivere con il male. La luce intravista si spegne, l’uscita del tunnel diviene incerta.

Ricordo di essere rimasto alcuni minuti incredulo, assente. Il telefono squillava, ma non riuscivo a rispondere. Ricordo la corsa davanti la tv, il bisogno di sapere. Ricordo il filo tenue di speranza: sono ancora vivi. E pochi minuti dopo, la certezza che quel giorno sarebbe stato il giorno del disonore.

Ma forse anche questa data sarebbe scivolata via insieme alle altre se non avesse avuto, 58 giorni dopo, un terribile suggello. La fumata nervosa di Borsellino davanti la camera mortuaria di Giovanni Falcone era un passaggio di testimone macabro e drammatico. I media di tutto il mondo lo indicarono subito come il successore. La frenesia di un Parlamento fino a poco prima sonnolento e distratto lasciava prevedere la sua imminente nomina al vertice dello strumento tanto richiesto da Falcone: la Procura Nazionale Antimafia.

Occorreva chiudere i conti anche con lui, prima che potesse divenire più pericoloso. Se le cupole mafiose avessero solo immaginato cosa sarebbe accaduto dopo via D’Amelio, forse la storia avrebbe avuto altri sviluppi. Ma la gigantesca massa di denaro, frutto della raffinazione di tonnellate di droga, li aveva resi incapaci di percepire le reazioni che si sarebbero scatenate. Dopo l’arresto di Riina ci furono altre stragi, altre esplosioni, monumenti che saltano in aria scelti attraverso una ricerca di simbolismi estranei alla dimensione militare della mafia. Il terzo livello intravisto da Falcone e Borsellino si scopre. Cerca di recuperare credibilità agli occhi di uomini feroci. Parte la trattativa, come tra due entità giuridiche, due sovranità, una legale e l’altra illegale. Ma la forza di reazione scatenata dalle stragi del 92 va oltre ogni immaginazione. L’indignazione si riversa sulla politica, sull’informazione, sugli organi investigativi. Non è tempo di compromessi, è tempo di dire basta.

Come sognato da Falcone e Borsellino, nella città che taceva adesso si grida. Uomini che negavano adesso trovano il coraggio. Nei Tribunali si additano gli estortori. I patrimoni accumulati con il sangue sono confiscati. I capi arrestati. Le nuove leve bloccate prima di spiccare il salto. Nascono le associazioni antiracket, il consumo critico. Il mondo smette di conoscerci come terra di mafia e ci riconosce come luogo di nascita del movimento antimafia. Il posto dove è nato un percorso di libertà. Il sogno di Falcone e Borsellino non è più un miraggio lontano ma una realtà che avanza dal vicino orizzonte.

Foto di prima pagina tratta da clickblog.it

 

Aldo Penna

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