Il granchio di Barrientos illumina Catania Quando aspettare vale sempre la pena

Sarei sicuramente esagerato se dicessi che Pablo Barrientos sia stato oggi il migliore in campo del Catania, nella partita vinta per 2 a 0 contro il Parma. Se toccasse a me assegnare un riconoscimento del genere, sarei piuttosto del parere di premiare Bergessio, che ha messo un pallone in rete, ha sfiorato un secondo gol e ne ha segnato un terzo annullato per fuorigioco; e che comunque di palloni ne avrà conquistati e difesi altri cento, facendo impazzire i difensori avversari. Sceglierei Bergessio, anche se mi dispiacerebbe far scivolare in secondo piano Almirón, nella cui prova ho finalmente riconosciuto il magnifico centrocampista dell’anno scorso. Almirón che per poco non ha segnato un indimenticabile gol da centrocampo, beffando il portiere del Parma Mirante. E neanche vorrei poi trascurare Izco o Gomez; e mi sentirei di dire una parola – tra gli altri – anche in favore di Bellusci o Legrottaglie.

E tuttavia, nel gesto che Barrientos ha compiuto al secondo minuto di gioco, liberando a rete Gomez per il gol del repentino vantaggio del Catania, c’è qualcosa che non può passare inosservato. Anche se si è trattato appena di un momento, di un lampo di luce in una partita con alti e bassi. Non solo di Barrientos, del resto, ma di tutta la squadra rossazzurra.

Ma osservate con attenzione, per favore, il gesto di Barrientos. Riceve palla qualche metro fuori dall’area, dove si trova quasi a passeggiare con le spalle alla porta. La tocca con il sinistro, infilandosi alla cieca tra due difensori in maglia bianca. Sempre con il sinistro, poi, la tocca ancora, un attimo prima che il più vicino degli avversari possa sventare il pericolo: e grazie a quel tocco la fa arrivare con naturalezza al centro dell’area, quasi sul dischetto del rigore; dove proprio in quel momento Gomez sta concludendo la sua rincorsa, cominciata senza palla ma con il più perfetto dei sincronismi: e con la preveggente certezza che la sfera da colpire si sarebbe trovata qualche istante dopo proprio in quel punto del campo, a chiedere solo di essere appoggiata in rete.

È un gesto, quello di Barrientos, di grande difficoltà tecnica, eseguito come se fosse la cosa più facile e naturale del mondo. Un gesto che ha insieme la compassata lentezza di un passo di danza e la napoleonica rapidità del fulmine che tien dietro al baleno. Ed è appunto in questa unione di lentezza e rapidità che c’è, secondo me, qualcosa di profondamente bello in questa giocata di Barrientos: qualcosa che riguarda sì l’estetica del calcio, ma tocca anche la vicenda sportiva di questo ragazzo, la sua anima di calciatore. Che è stata a lungo – troppo a lungo, per i suoi ventisette anni – un’anima condannata al purgatorio.

Quando è arrivato a Catania, nel 2009, Barrientos aveva alle spalle una carriera spezzata. Aveva giocato per tre anni in Russia (con l’FC Mosca) e per un anno in Argentina, nel San Lorenzo, dove aveva segnato 8 gol in 21 partite. Ma proprio nel suo Paese s’era dovuto fermare per la prima volta, per un grave infortunio al legamento crociato. Il Catania lo aveva acquistato a maggio 2009, quando ancora di rivederlo in campo non si parlava neppure, e il ragazzo aveva davanti solo la fatica di una lunga riabilitazione. Ma, nonostante ciò, la società rossazzurra lo aveva pagato 4 milioni di euro: la cifra più alta fino ad allora spesa dalla nostra squadra per un suo giocatore.

Qualche mese di attesa, come è logico, era nel conto. Ma nessuno si aspettava che l’attesa dovesse essere così lunga. A luglio del 2009, infatti, si rese necessario un nuovo intervento al ginocchio: e solo dopo altri sei mesi di fermo e la necessaria riabilitazione ci fu appena il tempo di vederlo in campo alla penultima di campionato, nella ormai inutile partita casalinga contro il Bologna.

Nella stagione successiva – eravamo quindi al 2010-2011 – Barrientos giocò soltanto un paio di partite in Coppa Italia. A gennaio del 2011 la società preferì rimandarlo dalle parti di Buenos Aires, all’Estudiantes. Ma solo in prestito. In Argentina Barrientos ricominciò a giocare per un po’. Poi dovette di nuovo fermarsi, per via di nuovi problemi fisici. A due anni dall’arrivo a Catania, dunque, i 4 milioni di euro spesi per lui avevano fruttato quattro presenze in gare ufficiali, neanche tutte complete. E, naturalmente, nessun gol.

Per conoscere Barrientos, dunque, abbiamo dovuto aspettare la scorsa stagione: al termine della quale i tabellini hanno registrato 25 presenze e 4 gol. Il primo di essi, tra l’altro, ci fruttò la vittoria a Lecce, un ritorno al successo esterno dopo un lunghissimo digiuno. Ci furono poi una doppietta contro il Genoa e una rete a Buffon, sul terreno dello Juventus Stadium. Non furono molti, i gol. Ma furono quasi tutti bellissimi: traiettorie avvelenate imprendibili per i portieri, sprazzi di classe pura, di quelli in cui il calcio confina con l’arte. Accompagnati da altre giocate in punta di pennello, che avevano attirato su di lui l’attenzione di diversi grandi club. Ma anche alternati a prove deludenti, a lunghe pause trascorse ad aspettare che il suo talento si incarnasse facendosi azione, assist, gol.

Sarà perché ormai lo so, che Barrientos bisogna saperlo aspettare. Sarà per questo che la sua giocata di oggi, più che a gesti di altri calciatori cui potrebbe facilmente essere paragonata, mi fa pensare a Italo Calvino. E precisamente al breve apologo che chiude una delle sue Lezioni americane: 

«Tra le molte virtù di Chuang-Tzu – scrive Calvino – c’era l’abilità nel disegnare. Il re gli chiese il disegno d’un granchio. Chuang-Tzu disse che aveva bisogno di cinque anni di tempo e d’una villa con dodici servitori. Dopo cinque anni il disegno non era ancora cominciato. “Ho bisogno di altri cinque anni” disse Chuang-Tzu. Il re glieli accordò. Allo scadere dei dieci anni, Chuang-Tzu prese il pennello e in un istante, con un solo gesto, disegnò un granchio, il più perfetto granchio che si fosse mai visto».

La lezione di Calvino si intitola Rapidità. Ma potrebbe anche, proprio in virtù di questa chiusa, intitolarsi Lentezza. Come la storia di Barrientos, appunto, che tra questi due estremi sta racchiusa. Una storia che ci ha abituato ad attese lunghe e faticose, a un’alternanza di fiducia e di sofferenza. Ma che ci ricorda, in domeniche come questa, che di aspettare vale sempre la pena. Perlomeno se c’è di mezzo un talento come quello di Barrientos. Che qualche volta si nasconde, tra un lampo e l’altro del suo genio. Ma che alla fine, puoi contarci, non ti tradisce.

[Articolo tratto dal blog La pelota no se mancha – Etica ed estetica del Calcio Catania]

Redazione

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