L’atmosfera è quella del grande giorno. C’è tensione nell’aria. Alle 9.30 in punto all’aula bunker del carcere di Pagliarelli di Palermo andrà in scena l’ultimo – per ora – atto del processo a Matteo Salvini, quello che dovrebbe portare alla sentenza per il mancato via libera per lo sbarco di 147 migranti salvati dalla nave di Open Arms nel 2019, che è valso all’allora ministro dell’Interno le accuse di sequestro di persona e omissione d’atti d’ufficio. Se considerato colpevole, il ministro delle Infrastrutture in carica rischia sei anni di carcere, tale è la richiesta avanzata dai pm palermitani Marzia Sabella, Giorgia Righi e Geri Ferrara alla fine di un dibattimento che è andato avanti per tre lunghi anni.
Tre anni in cui il leader della Lega ha sempre sostenuto la stessa teoria: «L’ho fatto per l’Italia» e «ho difeso i confini italiani», tesi quest’ultima sostenuta anche nel corso dell’arringa difensiva da parte dell’avvocata Giulia Bongiorno, che difende Salvini. Concetti ribaditi anche in un video girato ad hoc qualche mese fa e pubblicato sui social dello stesso Salvini. Tre anni in cui si sono alternate al banco dei testimoni 45 persone distribuite in 24 udienze, tra polemiche manifestazioni, striscioni e bandiere sia da parte di chi sostiene il ministro che da parte di chi invece lo attacca.
Era il primo agosto del 2019 quando la Open Arms, compiute diverse operazioni di salvataggio nello Stretto di Sicilia, chiese un porto sicuro alle autorità italiane ricevendo per tutta risposta un diniego, come previsto da quello che era il nuovo decreto sicurezza. Porto sicuro che non arriva per dieci lunghi giorni, in cui la nave, i naufraghi, tra cui 27 minori e l’equipaggio vivono bloccati al largo delle coste siciliane, tanto che la Ong si vedrà costretta a presentare un esposto alla procura per chiedere se in quel momento si stesse perpetrando un reato da parte delle autorità italiane. Reato che viene confermato nel caso dei minori, che il 13 agosto vengono fatti sbarcare. La vicenda ha un suo punto di sblocco però il 20 agosto, quando il procuratore di Agrigento, Luigi Patronaggio, compie un’ispezione a bordo e ordina l’attracco e ordina lo sbarco a Lampedusa.
Due mesi e mezzo dopo parte il dibattimento in aula. «La condotta del ministro è considerata un atto amministrativo e non politico, quindi è giudicabile da un collegio» sono le parole con cui il tribunale dei Ministri dà il via all’inquisizione di Salvini, rinviato a giudizio nel gennaio del 2021. Secondo l’accusa, impegnata in una requisitoria di ben sette ore filate, non fare sbarcare i migranti è stato parte di un «iter criminoso». Per tale posizione i magistrati palermitani sono stati più volte oggetto di critiche e persino minacce a mezzo social.
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