Il futuro del Sud? Abolire le parole lsu, lpu, pip…

da Davide Faraone
parlamentare nazionale del Pd eletto in Sicilia
ricviamo e volentieri pubblichiamo

Per quest’anno “passiamo”. Lavoro, una missione per me uomo del Sud. Naturale una volta eletto parlamentare, chiedere di far parte della commissione lavoro. Sud terra di mafia, di povertà e disoccupazione, terre da mille potenzialità inespresse. Abolire dal dizionario del Meridione le parole lsu, lpu, pip.

Eliminare quel rapporto perverso tra politica e lavoratori precari che Cirino Pomicino descriveva molto bene “Il consenso si conquista promettendo moltissimo e mantenendo sempre, ma con il contagocce”.

Così è stato negli anni. Prima ti chiedo il voto perché ti ho fatto precario, poi te lo chiederò perché ti mantengo così e poi ancora perché un giorno ti stabilizzerò. Non è stato un comportamento né di destra, né di sinistra, è stato un comportamento tipico della politica meridionale, che ha trovato terreno fertile nella povertà e in una società che è stata specchio della politica. Come diceva Brendan Francis: “I politici sono come le prostitute vengono disprezzate, ma chi non corre da loro, quando hanno bisogno dei loro servigi?”.

Tutto si è confuso, il lavoro con l’assistenza, la formazione con il lavoro, l’assistenza con il lavoro. Anche 8 euro giornaliere previste per i giovani partecipanti a corsi di formazione professionale, è stato scambiato per un’occupazione.

Chi se ne frega poi se il lavoro è improduttivo e non produce alcun beneficio per la collettività. Perfino Keynes è stato utilizzato per giustificare un modello economico perverso . Keynes aveva un assillo: impiegare tutta la forza lavoro nella produzione. In altre parole la piena occupazione. Negli anni ‘30 enormi file di disoccupati andavano a ritirare il sussidio; si chiedeva come potesse accadere che nessuno si preoccupasse di far produrre qualcosa a quei lavoratori, piuttosto che pagare loro una piccola cifra per non fare nulla.

Non era solo ingiusto per loro, era uno spreco per l’intera società. Noi in Sicilia abbiamo “finto” di attuare politiche keynesiane, abbiamo cioè, molto spesso, soltanto cambiato il nome al sussidio, lo abbiamo chiamato lavoro, ma abbiamo mantenuto la stessa improduttività. All’aumento del personale non ha corrisposto un museo aperto, una strada più pulita, una scuola più sicura.

In Sicilia si crea il lavoro dalla distruzione. Incendiando i boschi per far lievitare i forestali; chiudendo le più grandi imprese per far lievitare i di dipendenti le imprese regionali (ricordate Spatafora); strumentalizzando perfino la povertà per ottenere un sussidio chiamandolo “lavoro”.

Centinaia di giovani laureati buttano in discarica anni di studi per ereditare il lavoro di operatore ecologico dal papà all’Amia (società d’igiene ambientale del Comune di Palermo). Inutile studiare, se poi finisce così. Inutile formarsi se poi finisci con una cuffia in testa in un call center.

Quando un ragazzo su tre in Sicilia, non termina la scuola dell’obbligo, vuol dire che cresce una generazione senza cultura, scoraggiata, che afferma nei fatti e non nelle battute di qualche stupido politico che con ” la cultura non si mangia”.

Prima si studiava, si costruivano le infrastrutture immateriali, quelle che consentivano alle nuove generazioni di rappresentare un capitale umano che non riusciva ad essere espresso nella propria terra per mancanza di lavoro, ma si esprimeva altrove, prendendo una valigia e spendendo il capitale umano acquisito nel nord Italia o all’estero. Oggi passa la voglia perfino di emigrare.

Occorrono ricette rivoluzionarie, se si vuole invertire la rotta, una missione per noi uomini del sud. Smettere di essere una società con un’economia da “socialismo reale”. Un cittadino ogni 25 (compresi vecchi e bambini), prende soldi a vario titolo dalla Regione. Se si considerano solo quelli in età da lavoro (18-60 anni), un cittadino ogni 15.

La Cassa integrazione passata da 8 milioni annui a 36, quella in deroga da 1,4 a 13,2 milioni di euro.

Cos’è questa se non assistenza? Cosa fare? Una vera riforma della pubblica amministrazione.Una struttura di 20.000 dipendenti che si occupa di sopravvivere, non destinando un solo euro, una sola ora lavoro, per creare sviluppo. Controllare, tenere alta la guardia, ma rifiutare il concetto impresa privata uguale mafia.

Senza economia privata, con un’economia quasi esclusivamente fondata sui trasferimenti pubblici, in tempo di spending review, si muore. Investire sulle infrastrutture immateriali, su una formazione cucita addosso a giovani e imprese, non a enti e ad operatori della formazione. Infrastrutture materiali (fondi comunitari vanno utilizzati per investimenti, per “cose” che restano, strade, acquedotti, ecc, non per spesa corrente, come accaduto in questi anni). Alleggerire la presa del patto di stabilità, favorire gli investimenti.

Premiare il lavoro produttivo, non quello assistito. Ridurre le tasse per i contratti stabili e per i neo assunti; favorire l’uscita degli anziani e l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro; semplificare l’apprendistato. Favorire l’accesso al credito. Scandaloso che non vengano rifinanziati ad esempio gli incentivi in materia di autoimpiego e autoimprenditorialità gestiti da Invitalia.

Premiare il merito e non la conoscenza. Un’impresa che evade le tasse o che favorisce l’economia sommersa e il lavoro nero, un sindacato che difende un nullafacente o che non sa distinguere il lavoro dall’assistenza, una politica inetta che aumenta le tasse dei cittadini per pagare lavoratori precari senza preoccuparsi di migliorare i servizi, non servono alla Sicilia.

Occorre un patto tra amministratori, forze politiche, di destra e di sinistra, imprese e sindacati per creare lavoro al sud. Se riusciremo ad invertire la rotta, allora il prossimo anno, il primo maggio, sarà veramente una festa. Quest’anno “passiamo”.

Redazione

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