«Se so che hai un altro, ti prendo a colpi di pistola». Lo aveva minacciato mesi fa e lo ha fatto davvero Tony Sciuto. Il 38enne, trovato impiccato ieri pomeriggio, ha ucciso a colpi di pistola la sua ex convivente Vanessa Zappalà. Già denunciato per i maltrattamenti e gli atti persecutori (sull’auto della vittima, aveva installato un gps per poterne seguire ogni spostamento), l’uomo era stato arrestato il 10 giugno. Dopo qualche giorno ai domiciliari, il gip aveva deciso di disporne il divieto di avvicinamento. Con cadenza quasi quotidiana, si susseguono notizie di donne minacciate di morte, con l’accetta, con un coltello conficcato in testa, con il fuoco, con un machete. Come si fa a capire quando dalle parole si passerà ai fatti? «Purtroppo – ammette a MeridioNews Roberto Gennaro, avvocato, criminologo, sociologo e docente universitario di Unict – non ci sono indicatori precisi che permettano di stabilirlo».
La decisione del giudice sui provvedimenti da applicare come misura cautelare «va presa, sulla base di elementi presuntivi, con gli strumenti che l’ordinamento penale mette a disposizione – spiega Gennaro – valutando anche diversi indici». Oltre alla discrezionalità umana che non è una scienza esatta, vengono prese in considerazione l’età, la famiglia di provenienza, l’attività lavorativa, la relazione tra il minacciante e la vittima «e, da anni ormai – aggiunge – anche i social». Con il senno di poi, qualcosa il profilo Facebook di Tony Sciuto avrebbe potuto dire. Tra i selfie con auto e moto, ci sono immagini e frasi che alla luce dei fatti acquistano un senso diverso. «Io non dimentico nulla, aspetto solo il momento giusto», è la frase che accompagna una disegno di Scarface; a saltare agli occhi è soprattutto una foto, utilizzata anche come immagine di copertina, in cui ci sono un ragazzo e una ragazza di spalle: la scritta I love you sulla schiena di lui che tiene in mano una pistola puntata alla tempia di lei.
Trecento metri è la distanza prevista dal divieto di avvicinamento che il gip aveva applicato per Sciuto. «Il problema è – analizza l’esperto – che, in caso di persone che hanno una volontà così precisa, le misure non riescono a essere efficaci. Strumenti tecnologici o giuridico-giudiziari possono essere incisivi solo con chi vive il timore di una eventuale ulteriore misura. Pensare, però – aggiunge – a provvedimenti più restrittivi sulla base delle minacce, che pure sono gravissime e da non sottovalutare, non è possibile». Basti pensare che il divieto di soggiorno (per cui si allunga la distanza fino a fuori dal Comune) è previsto per reati gravi ai danni della collettività come per esempio quelli per mafia. «In una grande città, può avere senso fare indossare all’uomo un braccialetto elettronico collegato a un ricevitore che porta con sé la vittima – fa notare Gennaro – Diverso è, invece, quando si tratta di paesini in cui le distanze non consentirebbero azioni delle forze dell’ordine in tempi utili».
Dall’inizio dell’anno, in Italia, 38 donne sono state uccise da uomini, in prevalenza partner ed ex partner. In media, una ogni tre giorni. Che cosa si può fare per impedire che le minacce di morte diventino femminicidi? «Non ho una risposta ottimistica – ammette il criminologo – ma in qualche caso, ha funzionato allontanare la vittima dal contesto. Si tratta di un problema complesso che ha più livelli: culturale, etico, sociale e giuridico. Per cui, anche se a lungo termine, la soluzione potrebbe arrivare non soltanto da una parte ma affrontando tutti questi punti di vista insieme».
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