Didier Raoult è il medico del momento, in Francia – dove è finito sulla copertina di Libération – e non solo. Direttore dell’istituto ospedaliero universitario di Marsiglia, 68 anni, a lui e alla sua equipe si deve la prima sperimentazione in Europa di una terapia che mette insieme l’utilizzo di Idrossiclorochina e Azitromicina. Il primo è un farmaco utilizzato come antimalarico ma anche come antireumatico, il secondo è un antibiotico utile pure per le infezioni delle basse vie respiratorie. Lo studio, pubblicato sulla rivista internazionale di agenti antimicrobici, ha riguardato una sperimentazione su 26 pazienti selezionati e raggruppati in tre categorie: asintomatici, con sintomi come rinite, faringite e febbre e, infine, con manifestazioni più gravi come polmonite e bronchite.
«Dopo sei giorni di trattamento – si legge nello studio – il virus aveva una carica virale negativa». In una società sconvolta dai bollettini quotidiani su contagiati e morti, Raoult – nonostante non ci sia una cura appositamente formulata per pazienti Covid-19 -potrebbe avere acceso una speranza con dei farmaci studiati per altre malattie. Ma ci sono anche delle critiche perché lo studio, considerato il numero di pazienti, non avrebbe basi scientifiche solide. Oltre al fatto che i soggetti non sono stati scelti in modo casuale ma in maniera specifica.
Intanto anche in Italia i medici stanno associando Idrossiclorochina e Azitromicina per curare alcuni malati di Covid-19. Dal Sant’Orsola di Bologna al Garibaldi di Catania. Proprio nel nosocomio etneo, negli ultimi giorni, sono stati quattro i casi risolti in questo modo. A raccontarne l’utilizzo a MeridioNews è il professore Bruno Cacopardo, direttore del reparto di Malattie infettive al Garibaldi e componente dell’unità di crisi della Regione siciliana.
Professore quali sono, attualmente, i trattamenti a disposizione contro il Covid-19?
«Abbiamo a disposizione due modelli. Uno è antivirale, cioè agisce inibendo la replicazione del virus. Non abbiamo trattamenti specifici come per l’Hiv o l’epatite C, cioè costruiti in modo specifico per il Covid-19. Quelli che usiamo per questo coronavirus sono dei surrogati, quindi antivirali destinati ad altri usi. Ci aspettiamo che il Covid-19 condivida con altri virus alcuni meccanismi antivirali che andiamo a inibire con il farmaco».
A quali farmaci si è fatto ricorso?
«In particolare il Darunavir e il Lopinavir, comunemente in uso nelle infezioni da Hiv. Questi farmaci sono stati oggetto di studi controllati in Cina. I risultati sul Darunavir sono scarsi, però ha degli elementi che potrebbero renderlo, seppur parzialmente, efficace sul coronavirus. Sul Lopinavir lo studio è stato più strutturato e documentato e c’è un’azione antivirale ma non è sostanziale, cioè statisticamente non significativa. Questo studio si è prestato ad alcune critiche perché il Lopinavir è stato somministrato a pazienti con una storia della malattia piuttosto lunga e, quindi, con cariche virali alte. Se, per esempio, a lei somministro un farmaco mentre sta morendo è difficile che possa fare effetto. I protocolli nazionali, al momento, prevedono l’utilizzo perlomeno del Lopinavir che produce però effetti collaterali a livello intestinale e che può causare interferenze se somministrato insieme ad altri farmaci, situazione che in gergo chiamiamo drug drug interactions».
Come si è arrivati quindi all’Idrossiclorochina?
«Grazie a Raoult che nella sua carriera si è quasi sempre occupato di malattie infettive tropicali e parassitosi. Su alcune basi precedenti ha fatto ricorso all’Idrossiclorochina, utilizzata nelle malattie autoimmuni, o la Clorochina solfato, in passato utilizzata come antimalarico quando si faceva la profilassi. Tutte e due sono efficaci sulla replicazione del virus, cioè neutralizzano la sua moltiplicazione. Questo effetto è potenziato abbinando l’Azitromicina che è un antibiotico utilizzato da molti anni per le infezioni batteriche con funzioni immunomodulanti per l’albero respiratorio. Mettendo insieme questi due farmaci Raoult ha notato, su un gruppo limitato di soggetti, che tutti negativizzavano il virus nell’arco di una settimana. L’idea, adesso, è quella di unire questo lavoro con il Lopinavir».
Ci sono già dei riscontri?
«Dalla prima esperienza che sto facendo l’introduzione di questi farmaci, insieme, sembra dare una svolta alla maggior parte di coloro che sono sottoposti a trattamento per lo meno da un punto di vista clinico, in qualche caso anche virologico. Bisogna però prestare attenzione quando si somministrano questi tre farmaci. C’è da monitorare l’elettrocardiogramma perché insieme rallentano l’onda QT, cioè il valore che dipende da quanto velocemente si susseguono i battiti cardiaci. Ci sono anche individui a cui non possono essere somministrati perché prendono già altri farmaci e hanno controindicazioni».
Ci sono altre modalità di trattamento?
«Quello di un immunomodulante come il Tocilizumab, che riduce la tempesta infiammatoria che spesso è l’elemento più drammatico nella polmonite da coronavirus».
A Medicina, in provincia di Bologna, il professore Pierluigi Viale, direttore al reparto di Malattie infettive dell’ospedale Sant’Orsola, ha cominciato la sperimentazione delle unità mobili. Non bisogna più aspettare i pazienti gravi in ospedale ma curare quelli a casa. La sua idea a riguardo?
«Si tratta di un’idea bellissima. Anche perché i pazienti che sono a casa sono un argomento molto delicato. Si trovano nelle abitazioni o perché sono asintomatici o paucisintomatici, cioè con sintomi scarsi che ricordano quelli di un’influenza. Alcuni di questi tornano a casa perché guariti clinicamente, cioè se c’è un paziente con un brutta polmonite e io gliela curo dopo una settimana sta meglio o quasi bene, deve comunque essere mantenuto sotto controllo perché potrebbe peggiorare. Nel gruppo del Garibaldi abbiamo una procedura per cui li dimettiamo dopo avere eseguito un tampone. Se è negativo a distanza di qualche giorno ne facciamo un secondo, se anche questo ha esito negativo c’è il via libera. Se, invece, è positivo lo ripetiamo ogni settimana fino a quando arriva la negatività. Nel frattempo, ho un elenco con i nomi di tutti questi pazienti a cui telefono ogni giorno per capire la loro situazione. Ovviamente, si tratta di una cosa estremamente impegnativa ecco perché le unità mobili potrebbero aiutare molto, perché consentono anche di mantenere il contatto con queste persone senza dovere fare tutte queste chiamate».
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