Il degrado di quel Giardino inglese mangiato dall’asfalto «In questa città si lavora sempre e solo per emergenze»

«Il degrado si porta dietro degrado». Quanta amarezza in questa frase dell’architetto palermitano Danilo Maniscalco, di fronte alle condizioni in cui versa oggi il Giardino inglese, il parco urbano progettato a metà Ottocento da Giovan Battista Filippo Basile. Nato come giardino romantico, oggi assomiglia davvero molto poco a una parentesi di verde nel cuore della caotica Palermo, complice soprattutto la noncuranza che gli riserva da oltre vent’anni l’intera città. Tra padiglioni, sempre progettati da Basile, ormai fatiscenti, fontane piene di scritte, un’antica serra pericolante e semi distrutta, spicca soprattutto quell’asfalto che ha cancellato, in un colpo solo, gli originari sampietrini e i cubetti di porfido, mangiando in un boccone l’intero giardino urbano. «Una presenza contro natura», dice oggi Maniscalco. Che rivela come, in passato, la battaglia per rimediare a questa inspiegabile contraddizione sia stata una delle prime portate all’attenzione della Commissione urbanistica, estinguendosi però immediatamente. «All’epoca Emilio Arcuri tergiversava un po’, malgrado si fosse più volte detto meravigliato anche lui di quella strana presenza all’interno di quello che nasceva come un giardino».

Affermazioni che Arcuri, a distanza di anni, ribadisce ancora oggi: «L’asfalto è la cosa più mostruosa che ci sia al Giardino inglese. Un giardino asfaltato, insomma, ma che giardino è? – domanda provocatorio -. Fu asfaltato negli anni ’80 dal sindaco Nello Martellucci, l’unico che ha sempre protestato contro l’asfalto sono stato io. Anni e anni fa anche i Verdi cercarono di darsi da fare, tentarono di sistemare la villa, ma qualunque intervento resta fine a se stesso se quell’asfalto rimane lì dov’è». E sull’attuale rinato interesse per le condizioni del Giardino inglese sembra andarci cauto: «Se la gente parla solo dell’illuminazione del giardino, che dovrebbe essere mantenuta anche quando chiude al tramonto, bè…di che stiamo parlando? C’è forse dietro l’interesse dei giostrai che lavorano lì dentro? Non lo so. Io non sono assessore, per cui…», conclude, quasi con rassegnazione. Ma è chiaro che un’amministrazione non può pensare di amministrare al meglio la città senza mai fare i conti col suo passato e, soprattutto, con le scelleratezze che la rendono oggi quella che è.

Ma le contraddizioni, a Palermo, sembrano sprecarsi. «Il Teatro Massimo è il fiore all’occhiello di questa amministrazione. Eppure, a pensarci bene, stiamo parlando dello stesso architetto», fa notare di nuovo Maniscalco. «Quindi, noi trattiamo da un lato il Massimo come icona della città, mentre dall’altro il Giardino inglese rimane nel dimenticatoio, circondato da tutto quell’asfalto che ormai nessuno nota nemmeno più. Un paradosso, una schizofrenia assoluta nei confronti di Basile». In città, insomma, sembrano esserci progetti di serie A, cioè quelli dalla storia più fortunata, altri di serie B, come potrebbe essere il caso del Giardino inglese, ben lontano oggi dall’apparire come quando fu progettato, e altri ancora che forse non appartengono a nessuna serie, come il villino Favaloro, rimasto chiuso fino al 2015 e oggi in attesa di trasformarsi nel tanto pubblicizzato – a fasi alterne – Museo della Fotografia. «Oggi Giovan Battista Filippo Basile è ormai dimenticato – dice lapidario Maniscalco -. Le istituzioni stanno lavorando sulla figura e sull’eredità lasciata dal figlio, Ernesto Basile, ben venga, ma probabilmente il prossimo passo sarà quello di spostare l’asse su Basile padre, che è importante tanto quanto il figlio».

Intanto, quell’asfalto rimane lì dov’è stato messo anni fa, nell’indifferenza generale della gente, che non ne coglie evidentemente fino in fondo la contraddittorietà. «In passato, visto che il giardino è stato spesso luogo ideale in cui ospitare feste come quelle dell’Unità, si è detto che con l’asfalto c’era più sicurezza. Tanto che nel 2017 sarebbe anche stato risistemato. Il degrado della città oggi viene percepito quasi come polvere da mettere sotto al tappetino, insomma – continua -. Evidentemente la Soprintendenza dell’epoca, quella che permise questa modifica, non soprintendeva molto. Se io da architetto proponessi oggi di mettere l’asfalto in un giardino storico ottocentesco mi farebbero arrestare». Ma la chiave per cambiare le cose, secondo lui, starebbe nel non abituarsi al degrado come fosse un ineluttabile destino. «Togliere quell’asfalto non è un’operazione che costa milioni, parliamo di una spesa che potrebbe aggirarsi sul mezzo milione di euro ma per sistemare in toto tutto il giardino, non stiamo parlando di cifre astronomiche, perché non farlo? I fondi europei si possono trovare per queste cose, parliamo di tasselli fondamentali dell’identità siciliana. Ma abbiamo da un lato una Soprintendenza che non guarda e dall’altro un Comune che finge al momento che il problema non esista. Avessimo una città piena di verde, forse lo capirei, ma abbiamo il problema opposto, l’asfalto è ovunque e lo mettiamo pure in un giardino che nasce per essere il più vicino possibile alla natura, è un controsenso ingiustificabile».

C’è o non c’è, quindi, una volontà politica di rimediare oggi all’errore del passato? C’è o non c’è oggi la capacità di mettere da parte i ragionamenti basati sull’io prima non c’ero e quindi che ci posso fare? «L’argomento meriterebbe sicuramente più spazio rispetto a quello che ha avuto di recente», ammette la consigliera pentastellata Giulia Argiroffi, che rivela anche di avere più di un sogno legato al Giardino inglese. «L’eliminazione delle inferriate che lo delimitano, per recuperare quella fruizione libera che aveva quando è nato, quando è stato pensato e progettato. Sia lui sia il suo dirimpettaio, il Giardino Garibaldi. Sogno una città senza giardini ingabbiati – racconta ancora -. Dev’essere stato bellissimo quel tratto di via Libertà che passava tra due giardini liberi, ne esiste ancora qualche fotografia». E il pensiero corre veloce ad altri giardini cittadini rimasti liberi, come quello del Foro Italico, la Favorita, piazza Unità d’Italia. «Esistono modi diversi di garantire sicurezza, alternativi alla chiusura o compatibili con la chiusura – torna a dire -. Penso anche a villa Trabia e a quanto sia terribile camminare accanto a un muro quando potrei camminare accanto a piante, fiori e alberi. A Palermo, purtroppo, si lavora sempre e solo per emergenze».

Silvia Buffa

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