Il cucchiaio nelle orecchie/ Un siciliano a Milano

L’altra sera a Milano, mia figlia e io abbiamo voluto sperimentare il panzerotto del premiato Panificio F.lli Luini di via Santa Radegonda e, a che c’eravamo, l’arcipremiato dirimpettaio Gelato Italiano. Sedotti da una guida del mangiare a poco prezzo siamo fuorisciti dalla galleria Vittorio Emanuele, lasciandoci alle spalle uno sconsolato Forattini, all’angolo delle vetrate del bar Camparino, quello che sbircia piazza Duomo. Sbocconcellava solitario arachidi lasciando pieno e triste il bicchiere. Più triste, nella mia testa, è sembrato vederlo senza taccuino né tovagliolo bianco né matita. Bello vignettista mi sono detto. Beveva, credo, una sua personale solitudine a forma di arachidi. Il suo bicchiere pieno, invece, rifletteva di blu i luminescenti elicotteri a molla che si alzavano nel cielo della Galleria, lanciati da piccoli indiani e venduti a 5 euro trattabili. A intervalli regolari rifletteva altre luminescenze, quelle degli altissimi carabinieri in divisa preposti a scongiurare i voli non autorizzati. Comunque, girando e perdendoci tra Forattini, indiani, carabinieri, pucci e prada, siamo riusciti a recuperare la Santa Radegonda, finendo bocconi sui panzerotti di Luini. I quali ci furono ingrati perché assomigliano assai ai nostri calzoni fritti oleosi che una volta si mangiavano di domenica alla Vucciria, non già ai piccoli capolavori che Allegra ci offre ancora in via Ruggero Settimo tranne, giustappunto, la domenica. Essi, i nostri panzerotti siciliani della bonanima di Allegra governano (e governavano) la nostra memoria stomachevole. Ma, anche, un centro città che potrebbe fare la differenza, l’antimilano, lo 4 a 0 anziché lo 0 a 4, da piazza Croci sino a via Maqueda, e che nessun sindaco di Palermo, nessun illuminato o volenteroso imprenditore o allenatore è stato mai in grado di capire e valutare. Ahi, ahi perché non ci siamo mai svegliati, anche per un giorno, milanesi. Attraversammo la Santa e sbandammo sui gelati. Lì scorsi un uomo in tabarro, alto il doppio di mia figlia che si sottrasse alla fila coprendo con un’ala del mantello la poverella, abituata alle proletarie file di macdonald. Distinguere tra i portatori di tabarro, tra i portortatori di loden, tra i portatori di acquascutum, tra i portatori di lunghi capelli non è facile. Ci insegnano che ciò che conta è saper portare, indossare un capo, non è il capo in se stesso che conta. Quanto al mangiare è lo stesso. Dunque il gelato: bisogna saperlo leccare primaditutto. Al ritorno, malgrado le metropolitane di Milano siano etnicamente profumate, non siamo riusciti a disfarci dell’odore di zucchero, di meringa affumicata, di verdure andate a male che tanto suggestionano il turista o gli indigeni col tabarro. Lungo il tragitto che ci riportava in albergo, per zittire le mucose, siamo stati costretti a rifugiarci nel ricordo di un secco pistacchio gelato che una volta si gustava da Alba. Quello si godeva in gola e non puzzava.

Entrare in una piccola gelateria con un tabarro è come entrare da elefante in un negozio di cristallerie. Perciò fu giusta legge del contrappasso che panna e cioccolata calda sfregiassero in una colata di virgole, in via Santa Radegonda, il cachemire alamarato del signore milanese intabarrato.

 

Francesco Gambaro

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