Ogni era ha la psicosi che si merita, verrebbe da dire. Così questo 2020 che è appena cominciato si sta già contrassegnando per la psicosi del coronavirus, il virus respiratorio proveniente dalla Cina che può causare malattie che vanno dal comune raffreddore a sindromi respiratorie più gravi. E che sta creando un vero e proprio allarme sociale anche a Palermo. Tanto da costringere gli esercizi commerciali a fare attività di informazione verso i propri clienti. È il caso ad esempio del ristorante giapponese Wagashi, in piazza Unità d’Italia, che da qualche giorno sta concentrando i propri post su Facebook con appelli alla calma rivolti alle tante persone che hanno scelto di boicottare qualsiasi attività che abbia a che fare con il mondo asiatico.
«Come tutti i locali che lavorano con la cucina orientale abbiamo avuto un calo terrificante – racconta Claudio Scicchitano, il lavoratore che si occupa della pagina Fb di Wagashi – I numeri, rispetto ad appena due settimane fa, sono drasticamente calati. Anche la gente che viene comunque da noi continua a chiedere se l’involtino arriva dalla Cina, e cose così. Peggio di questa paura infondata c’è comunque il razzismo che il coronavirus sta alimentando. L’altro giorno ad esempio alcuni ragazzi palermitani hanno visto i miei titolari e hanno finto di scappare urlando “oh no, ci sono i cinesi”. Si sta esagerando».
Anche nel capoluogo siciliano, insomma, si vede il ritorno dei medievali untori. Una vera e propria psicosi che tra l’altro è ingiustificata non solo dal punto di vista morale ma anche prettamente sanitario. «Per contrarre il coronavirus bisognerebbe andare in Cina, dove è partito il contagio, e baciare in bocca qualche abitante del luogo – afferma ancora Claudio – Nel mondo siamo sette miliardi e almeno 500mila sono i decessi nel mondo causati dalle varie influenze stagionali contro le 300 vittime del coronavirus. A breve si troverà un vaccino ma quello per l’ignoranza rimarrà sempre introvabile. A essere boicottati non sono solo i locali che si occupano di cibo ma anche quelli di abbigliamento o di cosmetica. Poi però sono le stesse persone che vanno in negozi come H&M o Alcott, che si riforniscono comunque dalla Cina». A creare parecchio dibattito tra i seguaci della pagina Facebook di Wagashi era stato il primo post del 31 gennaio da parte del locale palermitano, in cui di fronte ai primi crolli nelle vendite si provava a rassicurare i clienti.
«I nostri fornitori sono Selecta, Marr e Aia per quanto riguarda le carni, che sono anche i più grossi fornitori in Sicilia – si legge -, mentre i prodotti della cucina cinese sono di produzione propria. Sull’igiene siamo in regola in tutti i reparti e usiamo solo prodotti Ecolab (leader nel campo della pulizia), inoltre siamo regolarissimi con la conformità igienica sanitaria, e lo stesso vale per il personale, che è formato all’80 per cento da palermitani e per il 15 per cento da indiani. Rimangono i due titolari, asiatici ma nati in Italia con rispettiva cittadinanza. E nessuno di noi è stato in Cina negli ultimi cinque anni». Un chiarimento, dovuto dunque alle difficoltà e alla pressione delle persone, che ha fatto alzare qualche sopracciglio. «Mi spiace che abbiate sentito il bisogno di questa precisazione – scrive ad esempio l’attivista LGBT Daniela Tomasino – I virus, a differenza degli imbecilli, non sono razzisti, e non fanno caso al Paese di provenienza delle persone. E non si trasmettono attraverso cibo e oggetti. Buon lavoro, e scusateci: purtroppo non siamo riusciti a rendere civili tutti i nostri concittadini».
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