Sono passati pressapoco due anni da quel luglio del 2017 in cui un’operazione congiunta tra polizia e guardia di finanza aveva sferrato un duro colpo alla famiglia mafiosa di corso dei Mille, nel pericoloso mandamento di Brancaccio. A finire in manette, tra gli altri, era stato Pietro Tagliavia, ritenuto il reggente del clan fino al 2015. Un clan che, seppur con qualche goffaggine di troppo – come nel caso della gestione un po’ allegra del gioco del Lotto clandestino – usciva dal ritratto degli investigatori come in continua ricerca di espansione per trovare una solidità economica. Proprio da quell’operazione partono le basi per l’indagine che stamattina ha portato all’arresto di 22 persone: dodici finite in carcere e dieci ai domiciliari, e all’attuazione di tre divieti di dimora. A prendere le redini dell’organizzazione dopo il passo indietro e poi l’arresto di Tagliavia, sarebbero stati Salvatore Testa e Luigi Scimò, quest’ultimo conosciuto come Fabio, braccio destro del primo, secondo le carte dell’inchiesta. A loro sarebbe andato il merito di avere dato autorevolezza al mandamento anche alla luce degli altri esponenti di Cosa nostra, con cui avrebbero tessuto dei rapporti di alta diplomazia. Tra i contatti accertati dagli uomini della squadra mobile di Palermo, che hanno portato a termine l’operazione, ci sarebbero quelli con i vertici delle famiglie di Resuttana, Passo di Rigano, Belmonte Mezzagno e persino Agrigento.
Il punto di forza del clan sarebbe stato nella voglia di riorganizzare il mandamento con l’aiuto non da poco di una folta schiera di sodali, a testimonianza del fatto che in alcuni quartieri Cosa nostra esercita ancora il suo potere e un certo fascino, riuscendo a reclutare anche forze fresche. Al centro del business non c’erano solo le estorsioni e la droga, ma anche un vecchio classico come il contrabbando di sigarette e ancora una volta il gioco d’azzardo. Questa volta però dall’attività poco redditizia del Lotto clandestino si è passati a quella ben più prolifica dei videopoker e delle slot machines. La novità, invece, starebbe nell’ingresso nel giro di affari delle case di riposo, con una serie di istituti intestati a terzi, ma che sarebbero stati sotto il reale controllo del gruppo che faceva capo a Luigi Scimò, che le avrebbe gestita per mezzo di Anna Gumina e Pietro Di Marzo, suo genero.
Di Marzo che è stato protagonista di diversi episodi singolari, l’ultimo dei quali cartina tornasole di come fosse capillare il controllo del mandamento sul proprio territorio. La sera del 18 maggio del 2017, proprio sotto casa di Luigi Fabio Scimò, è stato rubato uno scooter parcheggiato lì da Patrizio Militello, un altro degli arrestati, ma di proprietà di Di Marzo. Scoperto il furto Militello e Scimò, come certificato dalle intercettazioni, non appaiono minimamente scossi dall’accaduto, anzi: «Ti faccio riere» esordisce Militello parlando con l’altro che prontamente risponde: «Si sono portati il motore». Da lì sarebbe partita una breve ricerca, la richiesta di informazioni ad alcuni soggetti del luogo, oltretutto noti alle forze dell’ordine, fino alla scoperta del nome dei due ladri. La vicenda si conclude con il padre di uno dei due giovani autori del furto, che senza alcuna rimostranza si procura i soldi e compra un nuovo motorino per Di Marzo, grazie anche al coinvolgimento di Testa.
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