Il cibo come destino ultimo dell’umanità: la Metropoli Bestiale

SIAMO CIO’ CHE MANGIAMO: E ALLORA SIAMO MAIS, ANZI PRODOTTI DELLA LAVORAZIONE DEL MAIS…

di Cettina Vivirito

Ci vuole fantasia per riconoscere l’onnipresente mais nella bottiglia di Coca-Cola o nel Big Mac. D’altro canto l’industria alimentare ha lavorato davvero bene, visto che è riuscita a convincere che i quarantacinquemila prodotti in vendita nei supermercati sono il trionfo della varietà e non una serie di astute permutazioni di poche molecole derivate da una sola pianta. Ma se è vero che siamo ciò che mangiamo, allora siamo mais, anzi prodotti della lavorazione del mais, affermazione che si può dimostrare scientificamente a partire da un frammento di capello o di unghia. Il metodo si basa sulla conta degli isotopi stabili del carbonio che fungono da marchio di fabbrica delle piante che per prime li hanno catturati nell’atmosfera e immessi nella catena alimentare.

Un tempo, gli atomi di carbonio del nostro corpo erano in giro per l’atmosfera, legati in molecole di biossido di carbonio; l’unico modo per convincere questi atomi a diventare molecole della vita in quanto carboidrati, aminoacidi, proteine e lipidi, è la fotosintesi. Usando la luce solare come catalizzatore, certi corpuscoli verdi delle piante fanno reagire il biossido di carbonio con altri elementi ricavati dal suolo e costruiscono i semplici composti organici che stanno alla base di ogni catena alimentare: le piante creano la vita dall’aria. Il mais fa le cose in modo un po’ diverso da quasi tutte le specie vegetali, e questo lo rende più efficiente della maggior parte delle altre. Non solo: nel mais il processo è tale da conservare l’identità degli atomi di carbonio catturati anche dopo che sono stati trasformati in bibite, merendine e hamburger, e anche dopo che l’uomo li ha mangiati.

Nel corso della fotosintesi, la maggioranza delle piante crea composti con tre atomi di carbonio; il mais ne crea invece con quattro atomi. E’ per questo che le piante con tale utile proprietà, identificata solo negli anni Settanta, sono state classificate in un gruppo detto C4. L’essere C4 dà un vantaggio economico alla pianta, specialmente se cresce in zone dove l’acqua scarseggia e il caldo è torrido. Il trucchetto del C4 spiega il successo del mais in questa competizione: ben poche specie vegetali riescono a produrre una tal quantità di materia organica (e di energia) a partire dalle stesse quantità di luce solare, acqua e altri elementi di base.

Il modo in cui questa pianta particolare originaria dell’America Centrale, ignota al Vecchio Mondo prima del 1492, è riuscita a colonizzare una così grande parte del territorio americano e dei suoi abitanti è uno dei maggiori successi del mondo vegetale. Lo storico messicano Arturo Warman scrive: “Il mais è stato il mezzo che ha permesso alle ondate successive dell’immigrazione di insediarsi in nuovi territori. Una volta scoperti i suoi segreti e sfruttato tutto il suo potenziale, la presenza dei nativi non era più necessaria.” L’uomo bianco trovò lo strumento per soggiogare la sua gente; William Cobbett, scrittore inglese dell’Ottocento, dichiarò che senza la ricchezza del mais, i coloni non sarebbero stati in grado di costruire “una potente nazione”.

Oltre a essere una preziosa fonte di sussistenza, il mais, grazie alle caratteristiche dei suoi chicchi, divenne anche un bene durevole. Una volta soddisfatti i bisogni alimentari della sua famiglia, il contadino poteva portarne l’eccedenza al mercato, aiutato dal fatto che i chicchi di mais essiccati son facilmente trasportabili e quasi indistruttibili. Questa sua doppia identità permise alle comunità agricole di fare il passo da un’economia di sussistenza a una di mercato. Il mais ebbe un ruolo centrale anche nella tratta degli schiavi: era la valuta con cui si pagavano gli schiavi africani ed era l’alimento con cui venivano sfamati durante i viaggi in nave verso l’America. Una pianta protocapitalista in ogni senso.

Il mais riempì in fretta le tasche dei contadini; quando a metà del secolo scorso le rese sono aumentate vertiginosamente, pochi hanno resistito alla tentazione di dare sempre più spazio a questa pianta miracolosa, oltretutto, incoraggiati dal governo. Il prezzo del mais inevitabilmente ha cominciato a scendere, cosa che non indusse a un freno ma esattamente all’opposto, e le coltivazioni si fecero intensissime.

A partire dagli anni Cinquanta e Sessanta, un flusso inesauribile di mais a poco prezzo rese economicamente conveniente chiudere i bovini in grandi stalle e nutrirli con mangimi, invece che lasciarli pascolare sui prati; lo stesso avvenne per i polli che dalle aie furono trasferiti in grandi capannoni. Chi ancora teneva le sue bestie all’aperto non poteva più competere con l’allevamento industriale; tutti seminarono quindi l’unica pianta che potevano coltivare a più non posso: il mais. E quando il prezzo scendeva, ne seminavano ancora di più per compensare le spese e pareggiare i conti.

Arrivati agli anni Ottanta, nell’Iowa la classica fattoria a conduzione familiare, con tante piante e tanti animali, era stata consegnata alla storia: al suo posto, regnava il granturco. Il vecchio metodo, con il sole come fonte di energia era diventata una specie di cena gratis offerta dalla natura, ma il servizio era lento e le porzioni piccole. Nell’era industriale il tempo è denaro e la produttività tutto.

In un articolo apparso sul New York Times nel 2002, firmato da Michael Pollan, che s’intitola Power Steer (“Servosterzo”, sull’automobile, meccanismo che agevola il tornare indietro), leggiamo la descrizione di un viaggio (reale) compiuto da egli stesso e iniziato in una fredda mattina di gennaio di qualche anno prima. Possiamo immaginare di essere insieme a lui su un auto che sta percorrendo l’immensità della strada che ci porterà a uno dei primi FEEDLOT, in Kansas, ovvero alla Metropoli Bestiale per eccellenza.

Lungo il rigido reticolo di strade della Contea di Finey, la prateria grigiastra diventa a un tratto nera e geometrica: una scacchiera di recinti che si estendono a perdita d’occhio (“a un tratto” per modo di dire, visto che l’allevamento si preannuncia un paio di chilometri prima con un odore intenso il cui effetto proustiano non è quello di evocare le mucche al pascolo quanto orinatoi di autogrill). Ed eccoci arrivati a Poky Feeders; ogni recinto contiene un centinaio di bovini immobili sulle quattro zampe o sdraiati su una fanghiglia grigia che non è fatta di fango, ma di escrementi. Tra i recinti corre un reticolo di strade sterrate che convergono tutte verso il cuore rumorosamente pulsante del complesso edificio: un impianto per la macinazione del mangime che sbuffa a pieno ritmo, scintillando argenteo nella luce del mattino; una cattedrale industriale che domina la brulicante città della carne.

L’immenso macchinario converte con grande fracasso il fiume di mais americano in mangime per animali, come accade dodici ore al giorno sette giorni su sette. Mentre guardiamo attoniti, è inevitabile chiedersi come sia possibile arruolare un soldato così implausibile ( i bovini sono erbivori per natura) nella battaglia dello smaltimento del surplus di mais americano. Questi luoghi sono così diversi da fattorie e affini che, ci dice Pollan, sono stati battezzati con una nuova sigla: CAFO, ovvero “Confined Animal Feeding Operations”, (“Centri di Alimentazione Animale in condizioni di Confinamento”).

Inutile dire che i nuovi centri sono il risultato di specifiche politiche governative: i sobborghi non si sarebbero mai potuti costruire senza un sistema di strade di grande comunicazione, e senza i sussidi federali ai veterani di guerra e i mutui a tassi irrisori. Allo stesso modo, l’urbanizzazione degli animali non sarebbe mai avvenuta senza la disponibilità di tanto mais a buon mercato, frutto anche questo dei sussidi governativi. Nella loro breve storia, i CAFO hanno già causato un bel pò di problemi ambientali e sanitari, tra cui inquinamento di aria e acqua, scorie tossiche e introduzione di nuovi agenti patogeni pericolosi.

A questa assurdità biologica, tipica di tutti i CAFO, se ne unisce una specifica per i bovini: mentre i polli e i maiali dopotutto non hanno grandi problemi a mangiare soltanto cereali, il bovino è un’animale che vive d’erba in seguito a un raffinato processo di selezione naturale; immaginiamo cosa provoca la trasformazione subìta per mano dell’uomo in mangiatori di cereali, e i gravi danni per la loro salute, quella del suolo e alla fine quella di chi li mangia.

Il signor Pollan aveva realmente comprato un manzo, con delle caratteristiche che lo avrebbero reso riconoscibile; il suo desiderio era quello di saperne di più circa la catena alimentare per aumentare la sua consapevolezza sul cibo.

Questo manzo, a cui era stato attribuito il n. 534, aveva trascorso i primi sei mesi insieme alla madre al pascolo in un ranch non molto distante da dove si trovava adesso. Se si esclude il trauma subito all’età di sei mesi, quando è stato castrato e marchiato, possiamo supporre che quel periodo sia stata per lui un’età felice, considerando che pascolando, ha compiuto un gesto per cui l’evoluzione naturale l’ha preparato al meglio.

Purtroppo i bovini nutriti sui pascoli ci mettono più tempo a raggiungere il peso a cui vengono macellati, rispetto a quelli ingrassati con mangimi più ricchi: “Ai tempi di mio nonno”, racconta il proprietario del Feedlot, “si macellavano a quattro-cinque anni; negli anni Cinquanta, quando c’era mio padre, si era scesi a due-tre. Oggi ci arriviamo a quattordici-sedici mesi”. Fast food, in tutti i sensi.

Per abbreviare questo tempo ci vuole una quantità spaventosa di mais integrato con supplementi di proteine e grassi, nonchè un moderno arsenale faramceutico. E il rumine, ovvero quell’organo digerente più evoluto in natura di cui i bovini sono dotati che possiede la straordinaria capacità di convertire l’erba in pregiate proteine e che rilascia sull’erba stessa una popolazione stabile di batteri? Si è trasformato in una pericolosa sacca per il bovino e per noi, poichè anche i batteri utili si trasformano in qualcos’altro, per combattere i quali sopravviene la necessità di imbottire i bovini di una quantità inimmaginabile di antibiotici.

Sembrerebbe una logica naturale, dettata dall’evoluzione, quasi incofutabile: dopotutto, è riuscita a trasformare la carne da alimento di lusso a pietanza di tutti i giorni per milioni di persone. Eppure, aumenta la possibilità del dubbio: ci si comincia a chiedere se questa idea razionale non sia anche completamente folle.

Quando il vitellino del signor Pollan era stato allontanato dalla madre e portato al Feddlot, come tutti gli altri milioni di vitellini, si era depresso e aveva muggito per giorni e giorni; il cambio di ambiente e di dieta lo aveva stressato e reso preda più facile di malattie e infezioni. Era stato collocato in un recinto di preparazione, confinato quindi in uno spazio ristretto per abituarsi alla mangiatoia e a un cibo innaturale.

Ma non di solo mais è adesso costituito il suo pasto; raggiungendo il retro dell’edificio diventano visibili autocisterne che pompano litri di grassi liquidi e supplementi proteici. Lì vicino si trovano fusti di vitamine ed estrogeni sintetici, oltre a sacchi di antibiotici. Quel giorno, la poltiglia era composta da sego di bovino liquefatto, proveniente da uno dei macelli della zona, scarti di bovini stessi e midollo, urea, melassa, piume e scarti di polleria, cioè residui di lettiere, escrementi e rifiuti vari (cosa che vale, a quanto pare, anche per pesci, maiali e polli).

Visto questo, il mais ci sembra essere infine un cibo davvero salutare, non fosse alimentato non più dal sole bensì da fertilizzanti chimici, poggiando le proprie radici su composti di carbon fossile, fiumi di petrolio. Il Golfo Persico è sicuramente un anello della catena alimentare che passa per questo feedlot (e per tutti gli altri), difeso da un potente complesso militare (un altro costo di cui non si tiene mai conto): un quinto del petrolio consumato in America viene utilizzato per la produzione e il trasporto di alimenti. Supponendo che il bovino di Pollan, n. 534, mangi dodici chili di mais al giorno e raggiunga i seicento chili di peso, avrebbe di fatto consumato l’equivalente di centotrenta litri di petrolio (quasi un barile), prima di essere ucciso.

Ucciso e macellato alla velocità di quattrocento capi l’ora. Cosa che renderà possibile che prima o poi un frammento di quel letame incrostato sulla sua pelle finisca nella carne. Uno degli inquilini di quel fango in cui si trova perennemente impastoiato è particolarmente pericoloso per gli uomini: si tratta del ceppo, relativamente nuovo (mai osservato prima del 1980) di nome Escherichia Coli. Negli allevamenti intensivi ha trovato terreno fertile tanto da trovarsi nel 40% degli apparati digerenti degli animali. Produce una tossina che attacca i reni e provoca un’infezione dagli esiti fatali.

Ecco cosa è riuscito a combinare il mais: ha industrializzato quel miracolo della natura che è un ruminante, trasformando un perfetto organismo alimentato a luce solare, erba e pascoli in un’ennesima macchina che consuma combustibile fossile, ma che in più prova dolore. L’ultima cosa di cui avevamo bisogno. Come ci ha insegnato la visita a un allevamento industriale, siamo anche quel che mangia quel che mangiamo noi. E oggi siamo, o siamo diventati, non solo carne, ma mais e petrolio.

 

Redazione

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