Il cibo come destino ultimo dell’umanità Atto II

di Cettina Vivirito

E’ una splendida mattina di primavera, cielo terso e mare vivo, mosso quel tanto che basta per farsi considerare tale; la limpidezza dell’aria consente la visione nitida delle isole Eolie: galleggiano senza ombra di miraggio in tutta la loro superba bellezza dentro al golfo di Patti.

Il vento, ancora troppo fresco, vieta di tuffarsi nell’acqua limpida, così limpida da mostrare senza inibizioni il fondale privo di alghe, tra il sabbioso e il petroso. Mi avvio incantata lungo la banchina dove la schiuma bianca s’infrange tra i piloni, camminando lentamente, guardando ai miei piedi attraverso la griglia metallica i pesciolini che s’inseguono festosi, assaporando ad ogni passo la malìa delle onde e della loro musica.

A un tratto un rumore sordo mi costringe ad alzare lo sguardo verso un’imbarcazione che velocemente attracca nel punto estremo ed esatto della banchina dove pensavo di soffermarmi e quasi volare dentro a quel fantastico polmone marino; un’ imbarcazione particolare, munita di aggeggi metallici che cacciano fuori degli artigli pronti per acchiappare qualcosa; dietro di me due tizi mi chiedono di spostarmi prontamente per delle operazioni da fare. Incuriosita rimango non molto distante, a guardare. Caricano sacchi e sacchi di roba poi ancora sacchi e sacchi. Saliti anch’essi sulla navetta si allontanano poi verso il grande scoglio solitario al centro del golfo, vicino al quale s’intravede tra le onde la recinzione di un allevamento; saranno spigole o orate, penso.

Tornando verso casa ma ancora sul lungomare mi accorgo di un gruppetto di persone che attorniano un banchetto improvvisato da un pescatore solitario; penso che sarebbe una giornata perfetta per grigliare sotto al sole non troppo caldo una saporita spigola. Ci ripenso subito dopo; lascio che una sola spigola, la “mia”, nuoti ancora un pò felicemente in quell’azzurro, prima che la mangi qualcun altro.

Una giornata qualunque, come quella di chiunque altro.

Non fosse stato per il mio vizio di leggere, che mi porta spesso in libreria.

Compro così un libro sul cibo, addirittura in inglese (solo perché non è stato ancora tradotto), m’incuriosisce sapere cosa mangia la spigola, cosa c’è dentro a quei sacchi: ho sempre creduto che mangiasse dei pesci più piccoli oppure qualcosa contenuta nel mare; consapevole della mia ignoranza, proseguo con la pesca e il cibo tra sensazioni e pensieri. Il libro s’intitola “The True Cost of The Cheap Meat”, di Philip Lymbery e Isabel Oakeshott; è un’inchiesta, quindi ci sarà del vero, rifletto con una certa soddisfazione. Tra lo scontrino e il sorriso dell’uomo alla cassa mi chiedo come sia possibile che da qualche tempo la carne (di manzo o di pesce che sia) costi così poco.. Ricordo mia madre e le sue abitudini alimentari, ma anche le sue economie, carne o pesce solo una volta a settimana.

Salgo in macchina per tornare a casa, avvertendo dentro di me come un alone d’ansia leggera che inizia a pervadermi.

Tornai sul lungomare dopo un certo tempo, senza il coraggio di percorrere la banchina come facevo prima, a cuor leggero, felice di godere del paesaggio e della natura, quando ancora ne ignoravo la crudezza e ne obliavo la stessa realtà.

Guardai quel mare amato e contemplato tante volte e provai un indicibile sgomento; non riuscivo a non pensare a quel recinto in acqua, a un altro mare (che differenza c’è realmente tra un mare e un altro? Eppure non potei fare a meno di considerare la quantità di morti che giacciono nei fondali di Lampedusa, piuttosto che al mare di cui scriveva Claudio Magris e a quel mare peruviano di cui ho letto nel libro-inchiesta, dove ogni anno un milione di tonnellate di acciughe sono aspirate direttamente dal mare e ridotte in polvere per produrre mangimi a base di pesce; dove i pesci sono allevati in vasche talmente anguste che gli animali si mangiano a vicenda, e sono imbottiti di antibiotici. L’inchiesta è da brivido, e il brivido è del tutto giustificato.

Con tutta probabilità, qualcosa in me ha subito un cambiamento di rotta; non potrei mai più essere la semplice “turista” ovvero non riuscirei mai più ad immergermi nella natura vedendone solo il paesaggio, che infine è un recente fenomeno costruito dalla storia; il mio sguardo non potrà più essere condizionato dall’arte, dalle aspettative, incapace di uscire da se stesso o dalla storia poiché il panorama che ammiro è frutto della mia cultura non meno che della natura. Ho finito di contemplare i grandi spazi con uno sguardo che scivola via, che non afferra niente, che non recepisce la parte di ciascun elemento nell’architettura dinamica della campagna e del mare.

Inevitabilmente, ogni giorno, l’atto del cibarsi muta la natura in cultura, trasformando la materia in corpi e menti umani. Mangiando, instauriamo una relazione con molte altre specie che ci hanno accompagnato nel cammino dell’evoluzione, intrecciando il loro destino col nostro; misteriosi rapporti ci legano alle specie selvatiche di cui ci cibiamo, dai funghi del bosco ai lieviti nel pane. L’atto del mangiare ci mette di fronte a ciò che ci unisce e ci divide dagli altri animali. Il cibo ci definisce per quello che siamo. Anche se lo desiderassimo, tornare a vivere di caccia e di raccolta non sarebbe possibile: siamo troppi e ci sono troppo poche specie selvatiche. La pesca è l’ultima attività del genere che ha conservato una certa importanza economica, anche se la raccolta in acque libere sta sempre più lasciando il passo alla piscicoltura, per le stesse ragioni per cui si è passati dalla caccia all’allevamento degli animali terrestri. E’ deprimente, anche se non impossibile da immaginare, l’idea che i nostri nipotini vivranno in un mondo in cui nessuno farà più il pescatore.

Oramai, entriamo quasi esclusivamente dentro a un supermercato.

Se entrassimo in un supermercato con gli occhi di un naturalista quello che vedremmo sarebbe un ambiente con ricchissima biodiversità: in poche centinaia di metri quadri sono rappresentate decine e decine di vegetali, animali e funghi. In natura non c’è foresta o savana che possa vantare numeri analoghi. Quando ero ragazzina non si trovava una simile varietà di insalate o certa verdura o frutta esotica come il kiwi, il frutto della passione o il mango. E nel settore carni non è raro trovare quaglie, filetti di bufalo, struzzo e quant’altro e tra i pesci tilapia o pesce gatto. Poichè la biodiversità è un indicatore dello stato di salute di un ecosistema, da questo punto di vista i supermercati di oggi sembrerebbero promuovere questo ideale. Sembrerebbero è la parola giusta.

Se escludiamo il sale e un piccolo numero di additivi chimici, ogni prodotto commestibile in commercio è l’anello di una catena che ha come punto di partenza una certa pianta coltivata in un preciso appezzamento di terreno. Nel reparto ortofrutta la catena è corta e semplice da ricostruire: le patate vengono da Bologna, i pistacchi da Bronte, le noci dalla California, le cipolle dal Texas e così via..

Basta spostarsi in macelleria però, per accorgersi che i percorsi del cibo diventano lunghi e complessi. L’etichetta sulla confezione non lo dice, ma le bistecche che sto comprando provengono da un manzo nato nel Sud Dakota e ingrassato nel Kansas, dove è stato nutrito con cereali coltivato nello Iowa. Se passiamo poi agli alimenti confezionati ci vuole la tenacia di un detective ecologico per scoprire i passaggi, sempre più convoluti e misteriosi, che legano la barretta di Mars a un insieme di piante coltivate da qualche parte. Cosa scoprirei infine se andassi alla ricerca delle origini di ciò che si trova nel mio carrello? Una cosa fondamentale ho scoperto; che all’inizio della catena ritrovo sempre lo stesso posto: un campo nella Corn Belt, la “cintura del granturco” situata nel cuore dell’America. Il nostro supermercato medio con la sua vasta possibilità di scelta, poggia su basi biologiche assai limitate: una manciata di vegetali tra i quali domina un’unica specie, Zea mais, un’erbacea di grandi dimensioni e di origine tropicale, meglio nota semplicemente come mais.

Il mais diventa mangime, che nutre il manzo da cui arrivano le mie bistecche, il pollo, il maiale, il tacchino, l’agnello, il psce gatto e persino il salmone, una specie che in natura sarebbe carnivora ma che gli allevatori stanno riprogrammando come vegetariana. Le uova sono fatte di mais, il latte, il formaggio e lo yogurt che un tempo avevano come unico punto di partenza il foraggio di cui si nutrivano le mucche oggi proviene dalla vacca di razza Holstein, ovvero mucche allevate al chiuso e nutrite meccanicamente con pastoni di granturco.

(Quindi quei pacchi che ho visto caricare per nutrire l’allevamento di pesci nel golfo di Patti, probabilmente contenevano un pastone a base di mais, oppure polvere di quelle sfigate acciughe del mare peruviano..)

Il mio amico biologo, insieme al quale sto riempendo il carrello, mi convince della bontà del ragionamento attraverso delle crocchette di pollo impanate che catturano la nostra attenzione con i multicolori brillanti della confezione: erbetta e galline razzolanti sullo sfondo di un’improbabile Aia. Dentro quella crocchetta, mi dice, il mais è all’ennesima potenza: non solo ha nutrito il pollo, ma si trova anche nell’amido modificato che serve da collante tra pollo e panatura, anch’essa realizzata con farina di mais; e naturalmente da lì viene l’olio di semi in cui è stata fritta; ma ci sono altri ingredienti più nascosti, tutti a base di mais, come i lieviti, la lecitina, i mono, di- e trigliceridi, il colorante che serve a dare un gradevole aspetto dorato e persino l’acido citrico che mantiene “fresca” la crocchetta.

Se poi accompagniamo la crocchetta con una qualsiasi bibita, stiamo aggiungendo un bel contorno di mais liquido al mais solido che abbiamo appena comprato; con pochissime eccezioni, da più di vent’anni le bevande gassate e anche quelle non gassate al gusto di frutta, vengono dolcificate con uno sciroppo al fruttosio fatto con il mais (nome in codice: HFCS High Fructose Corn Scirop) che, dopo l’acqua, è il secondo ingrediente per quantità. (Ancora però non capisco come possano costare così poco).

Io preferisco la birra, dico al mio amico; altro mais, risponde lui; l’alcool che contiene è il prodotto della fermentazione del glucosio, che viene sempre da lì. In sintesi, mi sembra di capire che leggere le etichette dei cibi confezionati è un’inutile fatica, termini come amido modificato, sciroppo di glucosio, maltodestrine, fruttosio cristallizzato, acido ascorbico, lecitina, destrosio, acido lattico, lisina, maltosio, HFCS, MSG, olio di semi vari, caramello, gomma xantana, e altre diavolerie si traducono in un solo modo: mais.

Lo troviamo nel latte in polvere, nelle creme di formaggio, nel gelato, nei cibi precotti, nella frutta sciroppata, nel ketchup, nelle caramelle, nelle minestre pronte, nei preparati per dolci, nelle salse, nei dolci surgelati, nella maionese, nella senape, negli hot dog, nella mortadella, nella margarina, nelle pillole vitaminiche e, ebbene si, nelle barrette di Mars. Ma non è finita, basta svoltare verso corridoi non alimentari e ritroviamo lo stesso mais: nei dentifrici, nei cosmetici, nei pannolini, nei sacchi della spazzatura, in tutti i detergenti, nei fiammiferi, nelle batterie, nelle cere vegetali che rivestono i cetrioli per renderli più lucidi, nei pesticidi responsabili della perfezione dei prodotti, negli imballaggi con cui tutta la merce ha viaggiato, nell’edificio che ospita il supermercato visto che compensati e truciolati, linoleum, fibre di vetro e adesivi vari sono tutte ulteriori epifanie del mais, persino nella patinatura della rivista a cui abbiamo gettato uno sguardo prima di pagare, in coda alla cassa.

La catena alimentare industriale, ed è forse il suo aspetto più triste e preoccupante, occulta sistematicamente queste relazioni. Passare dal Gallus gallus al fast-food, dal pollo al McPollo, è un viaggio nell’oblìo che non potrebbe essere più dispendioso, in termini di sofferenza animale e del nostro stesso piacere. Ma l’industria alimentare conta propri sulla dimenticanza, e prima ancora sulla nostra ignoranza, (più avanti analizzeremo la politica di marketing dei prodotti That’s Amore Findus per rendercene conto senza soluzione di continuità) perchè, se potessimo guardare oltre i recinti sempre più sorvegliati degli allevamenti intensivi, cambieremmo sicuramente la nostra dieta.

E quanto a oblìo, qui in Sicilia il discorso assume una più forte connotazione, fatta di ignoranza atavica, di poca volontà al cambiamento, di accettazione passiva e perlopiù quasi moralmente giustificata. Appena qualche settimana fa, nel mare della Cala di Palermo sono state trovate migliaia di acciughe galleggianti e inerti, appena morte. Il motivo dell’accaduto rimane sconosciuto, ma la stessa mattina del ritrovamento erano già bell’esposte al mercato più vicino a un prezzo veramente conveniente; mia madre, che sa quanto amo il pesce, ha pensato bene di comprarne una quantità tale da propormene una bella scorpacciata; non posso descrivere la sua espressione quando le ho subito gettate nella spazzatura: incomprensione, dispiacere, persino disapprovazione per questa mia volontà di informazione e ricerca. Quasi quasi la prossima volta le mangio lo stesso, pensai con tristezza, per non dispiacere la sua ignara buona fede, dando così man forte al detto popolare che chiude in breve ogni discussione: “di cocchi cuosa ama a muoriri”.

Secondo Wendell Berry, contadino e intellettuale del Kentucky, “mangiare è un atto agricolo”. Ma è anche un gesto ecologico e politico. Oggi molti si accontentano di mangiare senza pensare: questo viaggio non fa per loro perchè leggendolo si rovinerebbero l’appetito. E il mio, alla fine, anzi, all’inizio, voleva essere un viaggio sui piaceri del cibo, quei piaceri che la conoscenza dovrebbe aumentare.

Comincio a pensare che “Il Vero Costo della Carne Economica” non sia fatto degli euro che sto contando alla cassa “Uno”.

Continua

 

Redazione

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