In Sicilia con Leonardo Sciascia. Ma anche la Sicilia senza Leonardo Sciascia. Il centenario della nascita di un autore che ha segnato la storia della letteratura di un Paese e non solo, lasciando la propria impronta ben oltre i circoli culturali, nel cuore della società civile, è un appuntamento che va celebrato. Se i natali riguardano però una figura come lo scrittore di Racalmuto, allora la cifra tonda serve soltanto da spunto per riprendere i fili di un discorso ininterrotto, che ha attraversato il Novecento e che nel terzo millennio inoltrato trova ancora la sua attualizzazione.
Leonardo Sciascia nacque di sabato, un secolo fa, nell’entroterra della provincia agrigentina. Tra qualche giorno uscirà in libreria il volume In Sicilia con Leonardo Sciascia, pubblicato da Giulio Perrone Editore all’interno della collana Passaggi di dogana. A scriverlo sono stati Antonio Di Grado e Barbara Distefano, entrambi esperti a tutto tondo dell’opera, della vita e del pensiero dell’autore de Il giorno della civetta. «Come tutti i volumi della collana parla di luoghi e degli scrittori che li hanno vissuti – spiega a MeridioNews Di Grado, che è anche direttore letterario della Fondazione Sciascia – La sua Sicilia era, come nel caso di tutti i grandi siciliani, terra amata e odiata. Non è un caso che solo gli scrittori siciliani siano condannati continuamente ad avere a che fare con le loro origini. Uno scrittore veneto o marchigiano non deve per forza parlare del Veneto o delle Marche, i siciliani invece sì». Un radicamento che oggi non è semplice individuare in altri. «Non ce n’è più traccia nella letteratura attuale – ammette Di Grado – Gli scrittori siciliani, per quanto stimabilissimi, si sono internazionalizzati. Viviamo in un mondo globale, si può parlare di qualsiasi posto del mondo. L’ultima triade di autori siciliani costretti a fare i conti drammaticamente con la propria appartenenza è quella formata da Gesualdo Bufalino, Vincenzo Consolo e, appunto, Sciascia».
Parlando di conti da fare, tra le operazioni più care a Sciascia ci fu senz’altro la sottrazione. Atto necessario per tentare di arrivare alla verità delle cose, spogliandole dalle mistificazioni. Un approccio rigoroso che il 10 gennaio 1987 – il giorno in cui Il Corriere della Sera mandò in stampa l’articolo dal titolo I professionisti dell’antimafia – gli moltiplicò, per restare in termini aritmetici, critiche e accuse per il riferimento indiretto a Leoluca Orlando e quello esplicitissimo a Paolo Borsellino, da poco nominato procuratore della Repubblica a Marsala. «Polemiche dai toni a tratti aggressivi e violenti che arrivavano dal sedicente comitato antimafia di Palermo – ricorda Di Grado – Si arrivò perfino quasi a dare del mafioso proprio a colui che per primo fece irrompere lo spettro della mafia nella letteratura e nel discorso civile di un Paese, i cui i governanti, all’epoca, ancora ne mettevano in discussione l’esistenza».
A distanza di oltre trent’anni è chiaro che nel mirino di Sciascia non c’era né il Borsellino magistrato, né il Borsellino uomo. «Non ne contestò la figura – va avanti Di Grado – ma le modalità poco ortodosse della nomina, e sappiamo quanto Sciascia tenesse alla maestà del diritto. Il nocciolo di quell’articolo era un altro e riguardava il rischio concreto per cui, una volta sconfitta la mafia, ci saremmo trovati nel carrozzone dell’antimafia gli stessi che un tempo erano mafiosi. Il tutto – sottolinea lo studioso – secondo quella legge del trasformismo che ha governato e vanificato la storia di questa terra». Da questo punto di vista gli esempi, gettando un occhio alle cronache giudiziarie ma anche fuori dai tribunali, pare non manchino. «In questi anni molte profezie di Sciascia si sono avverate. Parlando di professionisti dell’antimafia, espressione peraltro ideata dal titolista del Corriere, il caso di Antonello Montante è l’ultimo di una lunga serie e ci dice quanto Sciascia avesse ragione».
Già autrice di Sciascia maestro di scuola (Carocci, 2019), Barbara Distefano è un’insegnante siciliana con una consolidata formazione all’estero. Lì dove il nome di Sciascia da anni è ormai tutto fuorché sconosciuto. «Viene tradotto in decine di lingue, comprese il persiano e il giapponese, a dimostrazione di come sia stato un grande scrittore – spiega Distefano – Una figura internazionale riconosciuta dal mondo accademico ma che ancora oggi, specialmente a scuola, viene ricordato soltanto per i testi che parlano di mafia». In Sicilia con Leonardo Sciascia si pone come opera a metà tra la guida letteraria e il reportage, ripercorrendo luoghi che hanno avuto un ruolo nella vita dello scrittore. «Li ho scelti con un intento ben preciso – rivela la studiosa – quello di trasformarli in strumento per demolire stereotipi che ancora oggi ci si porta dietro quando si analizza la sua figura di Sciascia. Stereotipi di cui sono spesso vittima tutti i siciliani».
Tra questi c’è il cimitero di Racalmuto, il cui silenzio richiama il carattere dello scrittore a dispetto dell’immagine del siciliano chiassoso, e le zolfare. «Luoghi simbolo di un’epoca economica della Sicilia ma anche dello sfruttamento dei minatori, immagini che si scontrano con la vulgata che vorrebbe i siciliani non avvezzi al lavoro – commenta Distefano – Nella miniera di Assoro, ormai abbandonata, il fratello di Sciascia si suicidò». Lo stereotipo su cui, per certi aspetti, ancora oggi bisogna lavorare riguarda la letteratura siciliana nel suo complesso. «Si sconta ancora il pregiudizio riguardante un presunto carattere provincialistico della nostra letteratura, mentre le cose stanno diversamente. E Sciascia – conclude Distefano – ne è un esempio tangibile».
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