«Il Caso Catania? Un tabù»

«Il “Caso Catania” è in realtà il “Caso Italia”: nelle sue pieghe si possono leggere le miserie del nostro destino nazionale». L’ex presidente del Tribunale dei minori di Catania, Giambattista Scidà, è tornato a parlare, durante l’incontro svoltosi a Palazzo Biscari giovedì sera, delle vicende che in passato portarono a un’indagine del Csm sul Palazzo di Giustizia a Catania. E proprio della giustizia e dell’informazione a Catania – o meglio delle devianze dell’una e dell’altra – si è parlato nel convegno “Il Caso Catania e il ruolo dell’informazione”, organizzato da Sonia Alfano, europarlamentare dell’Italia dei Valori e figlia del giornalista siciliano Beppe Alfano, ucciso dalla mafia nel 1993. Al tavolo dei relatori erano presenti, oltre all’Alfano e a Scidà, Antonio Di Pietro, presidente dell’IDV, Loris Mazzetti, giornalista e capostruttura di rai Tre, l’avvocato messinese Fabio Repici, difensore di numerosi familiari di vittime di mafia, e Renato Accorinti, leader della rete No Ponte.

Il dibattito, moderato dalla giornalista del Fatto quotidiano Antonella Mascali, è scampato al rischio di risultare un incontro prettamente di partito. Tra i temi affrontati c’è stato anche quello del Ponte sullo stretto, questione che per Accorinti, insegnante e attivista, è strettamente collegata alla disinformazione. Ma l’argomento centrale della serata è stato quello introdotto dall’avvocato Repici: «Dare voce a Scidà che raccontò le devianze della magistratura e dell’informazione, e ritornare a parlare del Caso Catania significa uscire da un lungo letargo durato circa 10 anni». Un letargo causato, secondo l’avvocato, dal monopolio dell’informazione che ha contribuito al formarsi della «cappa dei partiti unici, quello giudiziario e quello politico, che non si sono fatti la guerra». Ma adesso, sostiene Repici, i “partiti unici” si dissolvono, tanto sul piano giudiziario che su quello politico, e si assiste a scontri tra ex alleati. Come quello che, ancora secondo Repici, ha come protagonisti l’attuale Procuratore capo di Catania, Vincenzo D’Agata, e un suo possibile successore, l’ex membro del CSM Giuseppe Gennaro (che a suo tempo ne appoggiò la nomina a procuratore). «Prima D’Agata e Gennaro erano uniti, così come Lombardo era alleato con Firrarello, Nania, Angelino Alfano e Schifani, o come Berlusconi era alleato di Fini. Adesso in procura ci sono due correnti, una pro D’Agata e una pro Gennaro».

Repici è poi tornato su una vicenda denunciata anni prima da Scidà che ruota intorno all’acquisto, da parte del dottor Gennaro, di una villa costruita a San Giovanni La Punta da una società riconducibile a Carmelo Rizzo, affiliato al clan Laudani che nel ’97 fu ucciso «perché – dice Repici – i mafiosi che erano con lui avevano paura che si pentisse». La vicenda della villa è stata oggetto di indagini condotte a Messina, da cui non sono emerse responsabilità penali di Gennaro. Tuttavia Scidà ha sempre insistito su di essa, nella convinzione che essa ponga un problema di credibilità dell’apparato giudiziario catanese.

Pochi mesi prima dell’uccisione di Rizzo, ha raccontato Repici, «il costruttore faceva pubblicità alle sue imprese con una brochure in cui si vantava di costruire case anche su terreni non edificabili. Ed ecco lo scoop che i giornalisti catanesi non hanno mai voluto fare: la foto sulla copertina della brochure – conclude Repici mostrandone la copia – ritrae proprio la villa del dottor Gennaro».

Una vicenda, sottolinea Repici, sulla quale è sempre mancata una adeguata informazione. Ma in questo il “Caso Catania”, secondo molti degli intervenuti, esprime una condizione che non è solo della città, ma dell’intera nazione. Inevitabile il parallelo in scala tra Ciancio e Berlusconi: «I Ciancio in Italia sono tanti, sono i Berluschini, come Riffeser e Ciarrapico», ha detto Loris Mazzetti, stretto collaboratore di Enzo Biagi, accolto con uno spontaneo applauso dedicato al giornalista del Fatto. «Loro sono i padroni dell’informazione locale, che è estremamente importante. Ricordiamo che la conquista della RAI, nei disegni della P2, doveva compiersi attraverso la conquista dell’informazione locale».

Di Berlusconi ha ovviamente parlato anche Di Pietro: «La berlusconite è una malattia che ha colpito diversi italiani, perché a molti conviene non essere puniti e non pagare le tasse».  Per il leader dell’IDV sono cambiate le sigle, ma non i politici: «Bisogna cambiare la facce per cambiare la politica. Per cambiare le facce, bisogna conoscerle e per conoscerle ci vuole l’informazione».

Sonia Alfano ha parlato di politica, puntando il dito sul centrosinistra e in particolare su Anna Finocchiaro, che alle ultime regionali definiva Lombardo ancor peggiore di Totò Cuffaro, ma ora ne appoggia il governo. Ma ha anche ricordato la vicenda del padre Beppe, corrispondente a Barcellona Pozzo di Gotto per La Sicilia. «Per sei anni abbiamo dovuto telefonare in redazione verso il 5 o 6 gennaio per ricordare di commemorare l’anniversario dell’uccisione di Beppe Alfano, avvenuta l’8 gennaio. La Sicilia era parte civile al processo come noi familiari, ma ad un certo punto non si presentò più nessuno alle udienze. Alla fine degli anni novanta abbiamo ricevuto 19 milioni di lire come risarcimento. Non ho mai saputo se La Sicilia ha preso quei soldi. Se lo ha fatto dovrebbe darli in beneficienza».

La giornalista de “Il Fatto Quotidiano” Antonella Mascali, prima di passare la parola a Scidà, ha ricordato che la direzione della Procura di D’Agata è agli sgoccioli, e ha auspicato che il CSM affidi la guida della Procura a un magistrato esterno ai meccanismi della città. «Il palazzo di giustizia di Catania – ha detto la Mascali – non ha storicamente brillato per le sue inchieste e la vicenda Fava ne è stata una prova. Ovviamente ci sono state e ci sono singole valorose eccezioni che pagano a caro prezzo lo stare fuori dal giro».

Una di queste eccezioni è sempre stata Giambattista Scidà, ex presidente del Tribunale dei Minori e da sempre figura di riferimento per la società civile catanese. «Il Caso Catania è stato tabuizzato», ha esordito, mettendo al centro del suo discorso il tema dell’informazione, e allargando lo scenario dalla stampa catanese a quella nazionale. «Io ho forse la maggiore anzianità della critica al giornale La Sicilia. Ho cominciato a parlarne nel 1987, quindi ho l’autorità per dire che non è giusto dare le colpe solo a quel giornale». Il gruppo Ciancio, secondo Scidà, non avrebbe potuto monopolizzare l’informazione se non avesse avuto il consenso di tutta la stampa nazionale; anche di quei giornali che, come La Repubblica, avrebbero dovuto costituire un’alternativa. Il magistrato ha criticato il quotidiano di Scalfari, partendo dai tempi in cui rinunciò alle corrispondenze da Catania di Roselina Salemi, e arrivando al noto accordo con Ciancio relativo alle pagine siciliane: «Repubblica ha accettato anche di non essere presente nelle edicole della provincia di Catania con le sue cronache regionali. Che importa se adesso, dopo un quarto di secolo, queste pagine arrivano anche a Catania?».

«L’effetto del tabù – ha ancora detto Scidà tornando al tema della serata – è stato grandioso»; tanto che non si trovano molte persone in grado di rispondere compiutamente alla domanda “cos’è il caso Catania”. «Con un’informazione diversa si sarebbero fermati tutti, con la non informazione non si sono fermati, e anzi sono andati avanti e non si fermano. Non avremmo il Comune che abbiamo, se non avessimo avuto per tanti anni la giustizia che abbiamo avuto». Il caso Catania, dunque, nella lettura del magistrato è una questione che riguarda il Palazzo di Giustizia ma che ha ricadute anche sui palazzi della politica: «Come ho detto più volte, il dissesto amministrativo dipende dal mancato esercizio dell’azione penale».

«Il Caso Catania è attuale? – chiede infine Scidà – Alcuni dicono di no. Ci invitano a voltare pagina. E invece è di un’attualità palpitante: basti pensare al dissesto amministrativo che ancora non è perseguito, al processo a Scuto, condannato per associazione mafiosa, al quale però è stato restituito l’85% dell’azienda, al procedimento che vede Gennaro querelante di Travaglio, Giustolisi e Flores D’Arcais per un articolo uscito su MicroMega nel 2006. Più attuale è l’argomento e più pressanti si fanno gli inviti a non parlarne. Qualcuno si è perfino augurato che non si parlasse del “preistorico” caso Catania stasera. Ma di cosa avremmo dovuto occuparci? – conclude Scidà, alludendo alle varie campagne di stampa che hanno avuto per oggetto le case di uomini politici e loro congiunti – Delle case di tutti, ma non di quella di Gennaro».

Agata Pasqualino

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