Il campo e il tempo che resta. Note su Giorgio Agamben

La contesa che vede coinvolti Apelle e Protogene -noti pittori
greci della fine del IV sec. a.C.-, riferisce Plinio, ha per oggetto
una linea. La linea pur sottilissima che traccia da par suo
Protogene è tuttavia divisa nel mezzo da Apelle con una linea
ancor più sottile. Al taglio di Apelle è, per così dire, accostabile
l’aforisma messianico che “non ha un oggetto proprio, ma divide
le divisioni tracciate dalla legge”, rileva Giorgio Agamben in Il
tempo che resta. Un commento alla “Lettera ai Romani” (Bollati
Boringhieri, 2000, p. 52):”

Sotto l’effetto del taglio di Apelle, la partizione nomistica
Ebrei/non Ebrei non è più né chiara né esaustiva, poiché vi
saranno degli Ebrei che non sono Ebrei, e dei non-Ebrei che
non sono non-Ebrei. […] Ciò significa che la divisione
messianica introduce nella grande divisione nomistica dei
popoli un resto, che Ebrei e non-Ebrei sono costitutivamente
“non tutti” (ivi, pp. 52-53).

Un Paolo dunque lontano dal concepire, come nella vulgata
spesso ricorre, un universale che sia “produzione dello Stesso”.
È l’impossibilità che l’ebreo e il greco, e così ogni popolo e oggi
gli “europei””, coincidano con se stessi. Dall”interpretazione
della dimensione del tempo messianico possono venirne, dalla
logica all’ ontologia alla politica, profondi e radicali ripensamenti
delle categorie di universale e particolare. Lungo la costante
filigrana benjaminiana, punteggiata da riferimenti a fondanti
categorie marxiane, Il tempo che resta, per implicazioni
metodologiche e aperture interdisciplinari -vertiginoso il
paragrafo su “Il poema e la rima” e la sestina in Arnaut Daniel
(l’Agamben anche provenzalista e interprete di testi letterari)- in
queste brevi note che seguono è posto en exergue.

Si farebbe infatti torto alla vastità dei suoi interessi scientifici
limitarsi a elencarne le tappe principali, in presenza tra l’altro
d’un pensiero in costante dispiegamento. All’inizio degli anni
Sessanta la “scoperta” di Benjamin (dal 1978, in un rapporto poi
interrotto, ha diretto per Einaudi l’edizione italiana delle sue
opere) e di Heidegger (a Le Thor nel 1966 e nel 1968 ne segue i
Seminari su Eraclito e Hegel), le frequentazioni di Elsa Morante
e Pier Paolo Pasolini; all’inizio degli anni Settanta la “scoperta”
di Aby Warburg (per l’antropologia) e di Emile Benveniste (per la
linguistica), la frequentazione, fra gli altri, di Italo Calvino.

Dalla coscienza della crisi delle scienze umane alla ricerca di
una “scienza senza nome”, all’allargamento degli interessi
speculativi all’archeologia della politica, alla biopolitica, alla
filosofia: Michel Foucault, Carl Schmitt, Hannah Arendt, Gilles
Deleuze (con cui scrive Bartleby, la formula della creazione,
1993), Aristotele e la linea averroista (Averroè, appunto, Dante,
Spinoza, Feuerbach, Heidegger, Leo Strauss). Da Stanze. La
parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977) a La
potenza del pensiero (2005) con cui inaugura la collana, da lui
stesso diretta, “la quarta prosa” per Neri Pozza.

Archelogia della politica, più di recente, attraverso l’archeologia
della parola, e la rivisitazione del “meccanismo del fondamento”
colto nelle trasformazioni che subisce:”Prenda la domanda “che
cos’è la vita?”. Essa si trasformerà nella domanda: “attraverso
che cosa, sul fondamento di che un certo essere è detto
vivente?” (“La Repubblica”, 14.5.2005: Almanacco dei Libri,
p.29), ovvero la rivisitazione, attraverso lo scavo archeologico sui
testi aristotelici, dell’esperienza della potenza del pensiero.
Agamben tende a riprendere e a sviluppare quel che, non solo
nei suoi autori preferiti, è rimasto (ancora) non detto,
“involuto”:”come se tornare indietro fosse per me il solo modo di
aprirmi una strada, di rendermi il pensiero nuovamente
possibile” (ibidem).

È, ad esempio, la rilettura della Politica di Aristotele (la coppia
categoriale zoé-bíos, il semplice fatto di vivere e la forma o
maniera di vivere), della Volontà di sapere di Foucault (la
biopolitica), della Teologia politica di Schmitt (la sovranità e
l’eccezione), di Per la critica della violenza di Benjamin (la nuda
vita), che innerva la trilogia Homo sacer. Il potere sovrano e la
nuda vita (1995), Lo stato di eccezione (2003), Quel che resta di
Auschwitz. L’archivio e il testimone (1998).

Si parta qui dal campo di concentramento: non rappresenta
un’anomalia, l’irruzione della follia di un dittatore e del suo
regime, un residuo del passato da commemorare. Tre
passaggi: quando lo stato di eccezione diviene la regola, allora
si apre lo spazio del campo; lo stato di eccezione prevede che il
diritto includa in sé il vivente tramite la propria sospensione
costituendo uno spazio vuoto di diritto; il sovrano, cui
l’ordinamento demanda il potere di instaurare lo stato di
eccezione è all’un tempo dentro e fuori dell’ordinamento stesso.

Allorché nuda vita e norma “entrano in una soglia di
indistinzione”, allora si crea lo spazio del campo,
dall’interrelazione tra violenza e diritto, dall’assunzione della vita
biologica in centro dei fini della politica. Il campo non è
prerogativa esclusiva delle dittature, che pur in vario modo su di
esso si fondano, ma può essere, ed è, anche uno spazio
escluso/incluso nelle democrazie parlamentari.

Se dalla purezza della razza alla soluzione finale transitiamo alla
pulizia etnica, o alla non trattabilità delle condizioni di vita del
popolo americano o ai campi di prima accoglienza o alle zattere
della morte che trasportano i migranti o alla palestra di Beslan o
al campo di Guantanamo o alle prigioni degli ostaggi dei
terrorismi di Stato e non, ivi la nuda vita è nel vortice del potere
sovrano che in nome dei diritti li sospende dimostrando la
caducità estrema del loro malfondato universalismo.

Della sorte di homines sacri (separati), uccidibili ma non zoé,
sacrificabili, uccidibili impunemente quindi, è questione oggi nel
pianeta. E la sacertà di siffatta vita è estendibile ad altre
condizioni: che cosa sono la precarietà, l’attesa della
manipolazione genetica, la biopolitica che diviene
tanatopolitica?

Spezzare la relazione tra violenza e diritto come spazio per
un’azione umana “che un tempo rivendicava per sé il nome di
“politica”, pensare a un bíos che sia solo la sua zoé postulare
un pensiero che pensa se stesso fondando la sua potenza, la
sua facoltà di muoversi fuori dei legami costrittivi dell’atto
determinato da un nómos fondato su uno stato di eccezione,
oggi macchina tecnologica che depriva. Un tempo che è il tempo
di pensare il tempo, uno spazio di liberazione che riporti, con il
pensiero, a pensare. Forse è troppo o troppo poco.

Antonio Pioletti

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