«I processi di mafia sono squilibrati perché i pentiti, per il solo fatto di aver stipulato un contratto con lo Stato, possono dire quello che vogliono. La difesa è invece limitata». Mentre le udienze sembrano scorrere senza colpi di scena, in attesa della requisitoria dei pubblici ministeri, si accende la polemica al processo ordinario Iblis. A pronunciare parole di indignazione è Francesco Strano Tagliareni, legale dell’imputato Vincenzo Santapaola, figlio del boss etneo Nitto e accusato di essere stato il presunto capo fantasma di Cosa nostra catanese. Motivo del contendere è la decisione del tribunale di sfoltire la lista dei testimoni della difesa di Santapaola jr. Presenti in aula, intanto, vicini di campagna e conoscenti di Pasquale Oliva, ritenuto dai magistrati l’uomo di Cosa nostra etnea nel Calatino.
Tra una testimonianza e l’altra, quella che sembra una semplice annotazione tecnica sui testimoni da sentire durante le prossime udienze diventa invece motivo di scontro in aula. Tutto comincia quando la corte impartisce precise direttive alla difesa di Santapaola: la loro lista dei testimoni si dovrà ridurre da una decina di voci a cinque, due per quanto riguarda le condizioni di salute del presunto boss e tre sul suo presunto ruolo apicale nell’organizzazione criminale. «Non intendiamo sentire dieci persone che dovrebbero rendere testimonianze auto-accusatorie e quindi ascoltare continuamente i loro “Non so, non ricordo”», dice il presidente Rosario Grasso. Riferendosi per lo più a collaboratori di giustizia e detenuti che dovrebbero confermare o smentire soprattutto le dichiarazioni di Santo La Causa, ex reggente di Cosa nostra etnea, poi pentitosi, e principale accusatore di Vincenzo Santapaola.
Tra i legali della difesa di Santapaola jr serpeggia lo sconcerto. «Noi non siamo qui perché i clienti ci pagano e veniamo a fare una sceneggiata. Noi abbiamo il diritto di esercitare la facoltà di prova e il diritto costituzionale alla difesa. Perché io credo davvero nel mio ruolo e nella mia funzione», sbotta Francesco Strano Tagliareni, prima di cominciare a passeggiare, nervoso, lungo il corridoio dell’aula. Ma il tribunale cambia posizione solo di poco, consentendo alla difesa di chiamare alle prossime udienze anche la moglie e la cugina di Santapaola jr, oltre ai cinque testimoni già stabiliti. Le due donne riferiranno soltanto di uno specifico episodio, come anticipato dai legali.
In un clima decisamente più pacato si svolge invece l’esame dei testimoni di Pasquale Oliva. «Detto u massaru o il ragioniere – diceva di lui alle scorse udienze il colonnello dei Ros etnei Lucio Arcidiacono Il suo lavoro lecito è la gestione della sua attività rurale, più alcune cooperative formalmente intestate ad altri ma a lui riconducibili». E proprio questo intendono provare i suoi avvocati, contrari all’ipotesi dell’accusa che vede in Oliva luomo di Cosa nostra catanese nel Calatino già al tempo del potentato della famiglia mafiosa dei La Rocca. A questo scopo vengono chiamati in aula la figlia Barbara Oliva; due vicini di campagna, Salvatore Marino e Antonio Licitra; l’acquaiolo di fiducia, Salvatore Catania, cioè colui che si occupava dell’impianto di irrigazione del terreno di Oliva.
Dal quadro che i testimoni tracciano Oliva avrebbe dedicato le sue giornate al lavoro in campagna. Un terreno in contrada Landolina, a circa 30 chilometri da Ramacca, comprato per 75mila euro ma che sembrava valerne qualche migliaio in meno. Più di tre ettari di agrumeto e cinquemila metri di uliveto con funzione di protezione dal vento e non di coltivazione, in pessime condizioni al momento dell’acquisto a causa delle esondazioni di un vicino fiume. I coniugi Oliva, raccontano i testimoni e un agronomo consulente della difesa, sono subito costretti a estirpare e sostituire circa 700 piante e a effettuare altri lavori di ripristino e migliorie, come il sistema di irrigazione. Oliva, insieme al suocero zu Mario, come lo chiamano i compaesani, lavorava la sua terra mattina e pomeriggio.
«Mai visto in compagnia di estranei né ha mai organizzato feste o riunioni in campagna», dicono tutti in risposta alle domande dell’avvocato Michele Liuzzo. «Ricordo solo qualche mangiata tra noi amici», aggiunge Antonio Licitra, bracciante agricolo dipendente che lavora in un terreno di fronte a quello di Oliva. Quando non lavorava in campagna, Oliva tornava nell’abitazione che – fino al momento dell’arresto – divideva con i suoceri. «Stiamo tutti nella stessa casa – racconta la figlia Barbara – Al piano terra c’è la cucina comune, al primo piano le camere da letto dei miei nonni, al secondo piano le nostre e al terzo la mansarda». Una vita semplice che poco sembrerebbe avere a che fare con quella di un uomo d’onore. Ma con qualche ombra che i magistrati hanno cercato di dimostrare tra intercettazioni, frequentazioni e testimonianze.
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