Iblis, la requisitoria contro Santapaola jr «Era lui il vero capo di Cosa nostra etnea»

«Che fosse membro dell’associazione mafiosa catanese è stato accertato con sentenze ormai definitive». Che ne fosse il capo, invece, non ancora. La voce del pubblico ministero Agata Santonocito si fa più alta quando parla di Vincenzo Santapaola. I monitor rimandano la sua immagina mentre ascolta, seduto su una sedia a rotelle, dal carcere di Rebibbia dove è recluso al 41 bis. Accusato nel processo Iblis di essere il vero vertice di Cosa nostra catanese dal 2005 al 2010, eppure così poco nominato durante lo stesso procedimento. L’assenza di intercettazioni a suo carico – «Non avevamo i fondi necessari per effettuarle su tutti i sospettati», spiegava il colonnello dei Ros Lucio Arcidiacono – aveva non poco fatto meravigliare la difesa. Che ha sempre sostenuto l’estraneità di Santapaola jr rispetto al mondo criminale e la persecuzione giudiziaria nei suoi confronti basata sul cognome, lo stesso del padre, Nitto Santapaola, boss a capo dell’omonima famiglia, oggi detenuto al 41 bis.

«La principale fonte, se non l’unica, sono le dichiarazioni dei sette collaboratori di giustizia», ammette Santonocito. Santo La Causa, Ignazio Barbagallo, Giuseppe e Paolo Mirabile proprio del clan Santapaola. Gaspare Pulizzi, capo famiglia di Carini del mandamento di San Lorenzo. Eugenio Sturiale e la moglie Palma Biondi, passati dal clan Santapaola ai Laudani, con un passaggio intermedio tra i Cappello. «Personaggi che, a parte marito e moglie, non hanno mai avuto modo di incontrarsi tra loro dopo l’inizio della collaborazione, cominciata in momenti diversi», sottolinea il magistrato. Ma a raccontare la sua versione completa della storia è stato senza dubbio La Causa.

Dalla frequentazione nel carcere di Parma allo scambio di arancini e gentilezze, l’ex reggente di Cosa nostra catanese racconta ai magistrati di come fosse stato proprio Vincenzo Santapaola a ordinargli di «riorganizzare la famiglia con uomini nuovi e principi vecchi». Autorizzato dal figlio di Nitto a lasciare l’organizzazione mafiosa per vivere in tranquillità, racconta La Causa, sarebbe stato richiamato in servizio dallo stesso per mettere un freno al carattere fin troppo indipendente di Angelo Santapaola. Ambasciatore della chiamata alle armi sarebbe stato Francesco Russo, incensurato nipote di Sergio e Maurizio Signorino del clan Santapaola. Amico di Vincenzo che in aula, chiamato dalla difesa, aveva anticipato il coinvolgimento dell’accusa raccontando una storia diversa.

L’incontro tra La Causa e Vincenzo Santapaola, secondo i racconti del pentito, si sarebbe così svolto tra il 2006 e il 2007 a casa del padre del collaboratore, un appartamento al quarto piano, «ma con ascensore», ricorda il pm Santonocito. Un incontro mai avvenuto, sostiene la difesa, per l’impossibilità di Santapaola di superare le barriere architettoniche del palazzo a seguito dei traumi riportati nell’incidente in moto del 2005. Una ricostruzione basata sui referti medici che, sostiene l’accusa, riportano però alcune contraddizioni. Come l’indicazione circa la possibilità di Santapaola di camminare per brevi e poi medie distanze con l’aiuto del bastone, prima dei peggioramenti avvenuti nel 2008.

I racconti di La Causa sembrano trovare una sponda in quelli degli altri pentiti ascoltati dai magistrati. C’è chi ricorda di aver saputo del vero ruolo di Santapaola jr a un matrimonio mafioso, come Eugenio Sturiale e Palma Biondi. Chi, come Giuseppe Laudani – capo dell’omonimo gruppo, braccio armato del clan Santapaola negli anni ’90 – e Giuseppe e Paolo Mirabile raccontano di incontri a cui Enzo Santapaola avrebbe preso parte in qualità di capo. E ancora Gaspare Polizzi, secondo il quale i Lo Piccolo di Palermo avrebbero dovuto rinunciare a incontrare il rappresentante etneo «perché il soggetto aveva specifici problemi di salute. Vincenzo Santapaola appunto», chiariscono i pm.

Una sfilza di accuse che l’imputato ha sempre rifiutato. «Nel 1998 disse ai magistrati che suo malgrado dovette avvicinarsi a qualcuno per difendersi dalla volontà omicida dei Mascali, sempre e solo per il cognome che portava – spiega Santonocito – Ma già in quell’anno e fin dal ’91, dice La Causa, Enzo Santapaola era uomo d’onore». Un evento impresso anche nella memoria di Giuseppe Mirabile, che ricorda come lo zio – sia suo che di Vincenzo – Antonino Santapaola fosse «pigghiatu ri collera per la decisione del nipote di entrare nell’organizzazione».

Arrestato a marzo del 2012, Santapaola jr dice ai magistrati che, da quando è stato scarcerato nel 2004, non ha mai avuto a che fare con i componenti dell’associazione, facendo cadere ogni rapporto per vivere una vita normale. Eppure proprio in quel periodo Alessandro Strano, considerato elemento apicale del gruppo di Monte Po, intercettato in carcere e temendo per la sua vita, dice al fratello: «Vai a cercare Enzuccio Santapaola, cercalo ovunque e chiedigli aiuto». «Enzuccio, come lo chiamano anche diversi collaboratori – nota Santonocito – Circostanza negata da Santapaola che pure ammette il soprannome del cugino omonimo: Enzo il grande». Enzuccio, come si rivolgerebbe sempre a Santapaola jr anche Alfio Aiello, fratello del presunto rappresentante provinciale di Cosa nostra etnea, in un’altra intercettazione relativa a vecchi processi.

«E che dire della lettera del 2010 inviata al carcere tramite i suoi avvocati e pubblicata da La Sicilia? – si avvia alla conclusione Santonocito – Altro che la volontà di una vita normale. Piuttosto un messaggio di avvertimento, secondo i magistrati abituati a pensar male, nei confronti di quanti facevano il suo nome così apertamente».

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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