«Un cinema», secondo alcuni. «Un teatro», secondo altri. Ma tutti concordano sul genere dello spettacolo: una commedia. Si chiude così la penultima udienza del processo Iblis prima che il procedimento entri nella sua fase finale, con la requisitoria del pubblico ministero e l’arringa delle difese. Le risate dei legali e del pubblico fanno da sfondo durante la seconda parte dell’udienza che ha visto sfilare diversi testimoni, tra cui il collaboratore di giustizia Aldo Crisafulli.
Nella prima parte della giornata, sul banco dei testimoni sale Francesco Russo, «amico fraterno da una ventina d’anni» di Vincenzo Santapaola. Tra quelli che – insieme alla moglie Vincenza Nauta – accompagnavano il figlio del boss Nitto alle varie sedute di fisioterapia e di controllo a cui è stato sottoposto dopo un grave incidente in moto. «Usciva sempre con la sedia a rotelle e si portava le stampelle per piccoli spostamenti – racconta Russo – Indossava sempre tute, pantaloni larghi e le bretelle per cui lo prendevamo sempre in giro». In nome di quest’amicizia, Russo avrebbe anche interrotto i contatti con parte della sua famiglia. Nello specifico gli zii Maurizio e Sergio Signorini, esponenti del clan Santapaola. «Vincenzo con me è sempre stato chiaro – dice al pubblico ministero Agata Santonocito – Se avevo intenzione di frequentare i miei zii, era meglio chiudere la nostra amicizia. E invece io ho scelto Vincenzo». Che, secondo la linea della difesa, ha sempre cercato di restare estraneo all’ambiente criminale, nonostante nel processo Iblis venga indicato come il capo fantasma della famiglia mafiosa catanese.
Per questo Russo racconta di essersi stupito quando nel suo negozio di abbigliamento firmato a Sant’Agata Li Battiati un giorno fa il suo ingresso Santo La Causa, ex reggente della famiglia etnea e oggi uno dei principali accusatori di Santapaola jr. «Mi disse che sapeva che ero amico di Vincenzo Santapaola e che aveva bisogno di parlare con lui. Io mi sono preoccupato, dissi che lo credevo impossibile ma che mi sarei informato – racconta il giovane – Tornò qualche giorno dopo per avere una risposta, ma questo incontro ovviamente non avvenne perché, quando ne parlai con Vincenzo, lui ebbe una reazione abbastanza pesante, si incazzò insomma, perché non voleva che dessi conto a questa persona con cui lui non voleva avere niente a che fare. La Causa non la prese bene e mi disse “Io lo volevo solo riabbracciare”». Un tentativo di intimidire il marito invece secondo la moglie di Santapaola. «Quanti anni aveva quando ha aperto il suo primo negozio?», chiede il presidente della corte Rosario Grasso prima di congedare il testimone. «Avrò avuto 27 o 29 anni», risponde Russo. «E ha aperto un negozio in corso Italia, a Catania?». «Sì».
Dopo altre testimonianze arriva la più discussa della giornata, quella di giustizia Aldo Crisafulli di Palagonia. «Una prova a sorpresa dei pm, non ammissibile», secondo i legali della difesa. Un racconto che si rivela a tratti confuso e lacunoso e che strappa non poche risate ai presenti. Diventato collaboratore di giustizia nel 2008 in un momento li libertà – dopo diversi periodi di detenzione – «per non farmi più sfruttare da alcune persone», Crisafulli ammette in aula il suo passato da tossicodipendente. La sua carriera criminale sarebbe cominciata, spiega, quando all’agenzia di trasporti di famiglia si sono avvicinati due imputati: Massimo Oliva e Giovanni Buscemi. «Venivano e dicevano a mio padre “Mi dia tremila euro” o settemila, e così via – spiega – Poi sono diventati anche soci, ma senza portare né capitali né clienti». Al giovane Crisafulli avrebbero lasciato il compito di andare a compiere delle estorsioni nei confronti di alcune ditte. «Poi andavano loro per aggiustare la cosa, dicendo “Se mi dai il lavoro, io non faccio tornare più gli amici miei”. Perché non penso avessero tutte le carte in regola per vincere le gare d’appalto rispetto alle altre ditte».
Traffici di eroina, sparatorie, pistole sotto i cuscini, fucili a pompa e a canne mozze, pistole calibro 9 e 3.45 e una gran quantità di munizioni, il tutto tenuto sotto un rimorchio. Sono gli ingredienti del racconto di Crisafulli che però, per i reati commessi conto terzi, racconta di non aver mai preso un euro e aver sempre «fatto la fame». Dichiarazione che fa perdere la pazienza persino ai magistrati che lo hanno chiamato a testimoniare. «Oliva e Buscemi promettevano, promettevano ma poi mangiavano solo loro – ribatte il collaboratore – Poi mi sono messo a lavorare e li ho lasciati perdere perché farmi uccidere così era da cretini. Tutti fanno loro la bella faccia davanti, ma li odiano perché hanno fatto piangere troppe persone».
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