«Io mi sono rovinata. Ho svuotato il conto corrente di mio padre. Ho fatto delle cose schifose. Adesso sono piena di debiti. Forse avrei dovuto rivolgermi subito ai carabinieri». Cettina Vinci è proprietaria da dieci anni di una stazione di servizio a Palagonia, dove vive da sempre. Nel 2007, con un’estorsione, due uomini l’hanno costretta a pagare 150mila euro. «In mano tenevano una foto di mio fratello e della sua bambina». Con le sue lacrime si chiude l’udienza Iblis di oggi sulle presunte collusioni tra politica, imprenditoria e Cosa nostra in provincia di Catania. «Signora, si calmi, lei così però non ci aiuta», risponde il pubblico ministero Agata Santonocito. Che sembra non riferirsi solo all’agitazione della testimone, ma soprattutto a quanto, nei racconti della signora, sembra nascondere un non detto per una paura che non è ancora passata.
La prima richiesta di pizzo arriva pochi mesi prima. Da Rocco Caniglia, imputato in un altro filone di Iblis, svolto con il rito abbreviato, in cui è stato condannato a 13 anni e quattro mesi per associazione mafiosa. «E’ venuto e mi ha detto che era necessario fare un regalo ai carusi – racconta Cettina Vinci – Io capii che si trattava di denaro». «E i carusi invece, secondo lei, chi erano?», chiede Santonocito. «Gente… malsana». «Posso dire che lei capii che erano delinquenti? Non è un’offesa, lei non sta accusando nessuno», incalza il pm. Silenzio dalla testimone. Balbettii. «Gente di non sani principi, ecco». Il caso comunque si risolve con poco. «Risposi a Rocco di ricordarsi che da piccoli giocavamo insieme e lui non è più tornato».
La signora Vinci, però, racconta di esser andata a consigliarsi con Rosario Di Dio, titolare di un’altra stazione di servizio, imputato nel procedimento Iblis e accusato dai magistrati di essere il boss della zona di Palagonia e Ramacca. «Sono andata da lui perché ha un’attività come la mia e magari sapeva consigliarmi – racconta la donna – Mi disse di lasciar perdere, di non pagare e di stare tranquilla». «Ma perché andò proprio da Di Dio? Se fosse andata dal parroco del paese sarebbe stato uguale insomma?». Quasi. Perché Di Dio è la stessa persona che, anni prima, si era interessata per facilitare l’apertura del distributore di Cettina Vinci, grazie ai suoi contatti con l’Agip. Niente a che vedere comunque con il suo presunto ruolo in Cosa nostra, secondo la donna, che non accenna nemmeno alla questione.
Una sera di pochi mesi dopo, però, due uomini a bordo di un’auto la avvicinano mentre torna a casa dal lavoro. Le intimano di seguirli in una strada appartata e le fanno la loro richiesta. «Io ho detto che non avevo tutti questi soldi – racconta Vinci – Ma loro mi hanno risposto “I soddi ci su, nescili e poi stai tranquilla“». Due eventi totalmente scollegati secondo la testimone. «Questi uomini erano sconosciuti e con un accento dell’entroterra, non delle nostre zone. Io sono sicura che Rocco non c’entra». Ma stavolta Cettina Vinci non va da Di Dio per avere un consiglio. Paga 150mila euro e continua ad avere paura. «Rosario l’ho incontrato dopo tempo. Sono andata da lui per chiedergli un prestito, perché sono ancora piena di debiti. Quando gli ho detto che ho pagato mi ha risposto che sono una cretina».
La prima parte dell’udienza scorre lenta, tra chi si avvale della facoltà di non rispondere – Antonino Sorbera, condannato a otto anni con rito abbreviato per associazione mafiosa – e le testimonianze di diversi amministratori di società che hanno compiuto lavori nel Catanese. Come l’ingegnere messinese Orazio Nicosia e Salvatore Petralia. Lunga audizione per quest’ultimo, ma priva di contesto per l’assenza – per la seconda volta di seguito – di un altro testimone: Francesco Alampo, impiegato alla sovrintendenza di Catania; la sua richiesta di costituzione di parte civile all’inizio del processo era stata respinta dal giudice. Alla prossima udienza è stato disposto il suo accompagnamento coatto.
Impossibile per i magistrati non ascoltarlo: secondo i racconti di Petralia, all’epoca dei fatti amministratore di una cooperativa che si è occupata del progetto di costruzione di 13 villette a Ramacca, era Alampo il vero gestore di fatto della coop. Petralia firmava tutto – «Forse il mio sbaglio è stato quello di fidarmi», racconta in aula – ma sarebbe stato Alampo a scegliere le ditte per i lavori, conservare la documentazione, incassare gli assegni. Uno anche extra bilancio, per una cifra di tremilaeuro, dice il testimone. Un ruolo di consulente, come lo definisce Petralia, che Alampo avrebbe ricoperto senza ricevere alcun compenso dalla cooperativa. «Lo faceva forse per hobby?», chiede il pubblico ministero Antonino Fanara. O forse per favorire alcuni imputati, è l’ipotesi dell’accusa. Come Carmelo Finocchiaro, alla cui ditta furono affidati i lavori delle villette.
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