I Savoia? Meglio perderli che trovarli!

Caro Direttore, mi fa tanto piacere commentare il tuo “pezzo” sulle statue “savoiarde” e mi fa ancora più piacere vistoRapsodia siciliana, Centocinquant’anni di storia di Sicilia, il lavoro drammatico in due tempi, con il supporto delle musiche, dei canti, degli inni, delle nenie, delle lamentele, delle ballate del nostro popolo che ha visto e pagato sulla propria pelle le nefandezze della “Conquista del Sud”, come ha magistralmente definito quel grande meridionalista che fu Carlo Alianello, autore de “L’Alfiere”, “L’Eredità della Priora” e successivamente de “L’Inghippo”.
Come sai, la mia Rapsodia affronta le problematiche dallo sbarco di don Peppino Garibaldi, a Marsala, fino alla costituzione della Regione siciliana che, come ho scritto nel testo teatrale, “è nata male e cresciuta peggio e oggi è un ‘chiummu’ per lo stesso popolo siciliano”, passando per la strage (democristiana) di Portella della Ginestra del primo maggio 1947, che doveva essere una festa del lavoro e di speranza per i nostri “viddani”, perché la coalizione socialcomunista del “Blocco del Popolo” era riuscita a piazzare n. 29 deputati alla prima Assemblea regionale siciliana.
I fatti riportati, con successo, da Pino Aprile sull’onda emotiva di una rivisitazione degli episodi risorgimentali e unitari, per lo più “volutamente” sconosciuti alla grande massa degli italiani ignoranti (“volutamente” è l’avverbio che ho usato nella lettera d’accompagnamento del programma di sala al nostro Presidente della Repubblica) non lo era ad una cerchia di ricercatori, di studiosi, di comuni mortali che si sono sempre documentati, via via, sulle pubblicazioni di altri meridionalisti: Vittorio Gleijeses,Gigi  Di Fiore, per citarne, forse, i più rappresentativi.
Chi scrive ha le carte a posto perché l’anno di nascita di Rapsodia siciliana data nel 2004, anno non sospetto e lontano dai successi “apriliani” di oggi. Poi non vorrei sbagliarmi, ma ritengo che Indro Montanelli – certamente uno degli ultimi veri, grandi giornalisti italiani (stirpe gloriosa, purtroppo, in via d’estinzione) che sosteneva che “Un popolo che ignora il proprio passato non saprà mai nulla del proprio presente” – abbia denunciato qualcosa in pubblicazioni di grande successo editoriale, come “Italia del Risorgimento” o in “L’Italia dei Notabili” (1973).
Certo, in quell’epoca era azzardato fare commenti che non rientrassero nel catechismo dei libri scolastici, che guarda caso erano uguali anche a quelli d’istruzione d’ispirazione cattolica. Del resto, c’erano stati, anche, i Patti Lateranensi e il Vaticano, la Santa Sede non è, come negli altri Paesi d’Europa, lontana è nella stessa Capitale d’Italia. Il tutto appariva quasi una mistificazione, una bestemmia, una “picconata” allo Stato unitario, fermamente saldo nei valori unitari, ma già bacato negli “anni di piombo”. Si peccava, ammettendo le verità, di antitalianità, di lealismo borbonico, di scissionismo, in una Italia, pero, che forse alle note dell’inno di Mameli, ci si alzava in piedi quando la nostra Nazionale di calcio si schierava in campo, per l’inizio di una partita internazionale.
Poi, per quanto mi riguarda non ho mai nutrito simpatie per le case regnanti dell’ ‘espressione geografica: i Borbone e i Savoia. Allora ricordiamo la “povera” e dolce Maria Cristina di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele I, moglie esemplare di Ferdinando II, il “re bomba”, che morì dando alla luce il proprio figlio, Francesco II, inteso Francischiello, ultimo re Borbone.

Come si è comportato il “parente”, Vittorio Emanuele II, re d’Italia, il “Padre della Patria” ed il suo Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, quella persona per bene di “macellaio” del generale Enrico Cialdini, sia all’assedio del Forte di Gaeta che alla Cittadella di Messina, che al Forte di Cittadella del Tronto, difesi fino all’ultimo uomo? Come si comporteranno un ottantennio dopo i nazisti del generale Albert Kesserling!
Penso al “Padre della Patria” nell’iconografia tradizionale: pacioso, cacciatore, uno sguardo austero, ma stranamente paterno. Cavour era un genio, peccato che sia morto prematuramente, era un Primo Ministro in gambissima, che pensava a tutto. E quindi lui, il re, pensava … alla “bella Rosina”.
Il vizio di famiglia, la caccia delle “femmes”, proseguì con il figlio, il pimpante Umberto che non avendo altro da fare perché i problemi dello Stato glieli risolvevano i Primi Ministri “trasformisti” e la brava (?!) moglie, l’abile regina Margherita, con sontuosi pranzi di gala al Quirinale e nei palazzi reali, intrattiene “liaisons dangereuses » con la stabile amante, l’affascinante Eugenia Attendolo Bolognini, moglie del conte Giulio Litta Visconti Arese (che diventerà poi duca alla morte del fratello Antonio) e altre occasionali e semistabili compagne che regolarmente incontra in comodissime alcove del Quirinale, che trasforma nella sua preferita garçonniere. Quando, poi, la relazione con Eugenia, descritta come “la Du Barry da strapazzo” o “la Pompadour italiana” o “la nostra nobile inimica” finisce sui giornali, i due “colombi” decidono d’incontrarsi nella villa di lei, di Vedano al Lambro, adiacente alla villa reale di Monza, residenza di Umberto.
Poco importa se a pochi chilometri da lì (nel maggio 1898, il governo è guidato dal palermitano Antonio Starrabba marchese di Rudinì), a Milano scoppiano i moti, passati alla storia come “la protesta dello stomaco” e il generale piemontese Fiorenzo Bava Beccaris, in qualità di Regio commissario straordinario, li represse a colpi di cannone, sparando su una popolazione inerme, armata solo della disperazione della fame nera. Sul selciato rimasero colpiti a morte 80 disgraziati e 450 feriti.
Il “re buono” (così chiamato per il comportamento assunto nel fronteggiare l’epidemia di colera a Napoli del 1884, prodigandosi personalmente nei soccorsi e nella promulgazione del cosiddetto codice Zanardelli, che apportò alcune innovazioni nel codice penale) il 5 giugno, premiò il suo fido generale, in riconoscimento della “brillante operazione di polizia”, con la concessione della Gran Croce dell’Ordine militare di Savoia e il successivo 16 giugno lo nominò senatore del Regno. Il generale verrà ricordato, nel canzoniere popolare italiano, con la canzone intitolata Il feroce monarchico Bava. Per non parlare, infine, dei “Fasci siciliani dei Lavoratori” e della lunga striscia di sangue a loro impressa dal Primo Ministro in carica, il siciliano Francesco Crispi.
Quel 29 luglio 1900 fu, però, fatale a Umberto; ci piace immaginarlo che uscisse dal suo “buen retiro” e in effetti usciva dalla sua reggia di Monza per recarsi alla cerimonia di chiusura del concorso ginnico organizzato dalla società sportiva “Forti e Liberi”, quando l’anarchico Gaetano Bresci lo freddò con tre colpi di pistola, sparati in rapida successione. ? appropriato l’adagio popolare che recita: ”Tanto va la gatta al lardo, che ci lascia lo zampino”? E ancora. Umberto lasciò “eredità d’affetti”?

Mise al mondo un figlio: Vittorio Emanuele III, soprannominato da noi in Sicilia, “Sciaboletta” perché, come scrivo nel mio copione di Rapsodia siciliana era curtu e malucavatu, perché figlio di due consanguinei e il tronco era più sviluppato rispetto agli arti inferiori e, quindi, la sciabola gli tirava tiri mancini, rendendolo ancora più ridicolo, in confronto al Duce, che era un omaccione ben piantato, romagnolo puro sangue. Sono eloquenti le foto delle grandi manovre, o quelle della visita in Italia del Führer. Ma certamente un segno lasciò il “buon” Umberto: lo raccoglierà, nel 1955, il terzo Presidente della Repubblica Italiana. L’illustre inquilino del Quirinale reputerà opportuno vivacizzare lo storico e austero palazzo, che fu dei Papi con l’istituzione, sotto le stelle di Roma, a cielo aperto, del “casino” personale presidenziale e gli austeri corazzieri vedranno entrare, in macchine blu, affascinanti star del mondo dello spettacolo, sofisticate signore della “haute”, e cercando di chiudere tutti e due gli occhi, tra il serio e il faceto, mormoreranno: “A li mortacci tua!”
Vittorio Emauele III fu anche un ”re buono”, se per “buono” ci si riferisce al fatto che assieme alla propria moglie, la dolce e comprensiva Elena del Montenegro (fu una vera, patetica storia d’amore) il 29 dicembre 1908 partì per Napoli e salito sulla “Vittorio Emanuele”, in sosta per caricare a bordo anche materiale sanitario e generi di conforto, raggiunse Messina, nelle prime ore della giornata successiva a quel tremendo 28, nel quale in 37 lunghissimi secondi il terremoto danneggiò gravemente Reggio e la Città dello Stretto. Giova ricordare, a questo punto, che le popolazioni siculo-calabresi vennero immediatamente soccorsi da navi russe ed inglesi di passaggio, mentre gli aiuti italiani arrivarono, “stupor mundi”, solo dopo una settimana.
Fu “buono” re Vittorio Emanuele III quando, reduce da una guerra vinta, ma dalla quale non abbiamo ottenuto nulla: “la vittoria mutilata”, con una situazione economico-sociale da fare paura, dal 27 al 30 ottobre 1922, a Roma, a Porta San Paolo, difesa dai Reali Carabinieri, non prese alcuna decisione e non fece sparare alcun colpo di moschetto su quelle squadre “nere”, armate di manganello e di qualche arma da fuoco, che gridavano e imprecavano al suono di “All’armi! All’armi! / All’armi siam fascisti / terror dei comunisti. / E noi del Fascio siamo i componenti / la causa sosterrem fino alla morte / e lotteremo sempre forte forte / finchè terremo il nostro sangue in cuor”.
Dov’era il “buon” re, vent’anni dopo, sempre a Porta San Paolo, dove i Reali Carabinieri in una Roma città aperta la difendevano dai violenti attacchi nazisti? Si era rifugiato a Brindisi, sotto la protezione degli Alleati, assieme alla propria famiglia e al Capo del Governo, il Maresciallo d’Italia, Pietro Badoglio, in una Italia divisa, in mano ai Tedeschi e agli Angloamericani.
L’ultimo Savoia fu Umberto II, Luogotenente generale del Regno, detto il Re di Maggio perché rimase in carica dal 9 maggio al 18 giugno 1946 e, venuto in contrasto con i ministri in merito ai risultati non ancora definitivi del referendum istituzionale del 2 giugno, preferì lasciare il Paese e partire per l’esilio di Oporto il 13 giugno 1946. ? celebre la famosa fotografia che lo ritrae, con il cappello in mano, nell’atto di salutare i suoi più stretti collaboratori, prima d’imbarcarsi sull’aereo. ? certamente una visione patetica dell’ultimo Savoia , forse, patetica, come è stata la sua vita pubblica e privata.
Fanno certamente eccezione nel serraglio reale “savoiardo” le dolci figure delle principesse Maria Cristina e Mafalda Maria Elisabetta Anna Romana, intesa familiarmente Muti, figlia sfortunata di Vittorio Emanuele III e moglie del langravio Filippo d‘Assia, catturata dai nazisti e internata nel Lager di Buchenwald (dove venne rinchiusa nella baracca n. 15 sotto falso nome: Frau von Weber e, a seguito di un bombardamento anglo-americano, gravemente colpita, fu ricoverata nell’infermeria della casa di tolleranza dei tedeschi del lager, dove le sue condizioni peggiorarono. Dopo quattro giorni di tormenti, a causa delle piaghe insorse la cancrena e le fu amputato un braccio. Fu, quindi, abbandonata in una stanza del postribolo, privata di ulteriori cure e lasciata a se stessa. Morì dissanguata, senza aver ripreso conoscenza, nella notte del 28 agosto 1944. A chi aveva capito la sua vera identità era solita ripetere: “Italiani, ricordatemi di me come di una vostra sorella”.
Caro Direttore, verso la fine del tuo articolo dici testualmente: “Certo, la politica, l’attuale politica siciliana, spesso non ci aiuta. Ma questo non è un buon motivo per subire. Il Sud, come si diceva negli anni ‘50 del secolo scorso, deve tornare “all’opposizione”. E questa opposizione deve partire da segnali precisi: e uno di questi segnali che Pino Aprile ci ha regalato con il suo libro e, in generale, con la sua opera, è quello di riappropiarci della nostra dignità di italiani che hanno deciso di fare i conti con il presente e con il passato”.
Lasciami dire le ultime cose: nel mio programma di sala, cito in apertura la frase menzionata di Montanelli e ne aggiungo due; una è quella di Massimo d’Azeglio: “Ora che è fatta l’Italia, bisogna far gli italiani”; l’altra, brevissima, è mia: “E i Siciliani?…”
Non mi sembra che dalla nascita dello Statuto speciale regionale ad oggi ci sia stata una responsabile presa di conoscenza delle nostre reali possibilità social-economico-politico-legislative. Ecco perché alla fine del mio testo, alzando il tono della recitazione, testualmente faccio dire al Narratore: “Allura nun resta ca sbrazzarini, dàmuni na mossa, na bona vota ppi tutti, nuatri c’avemu lu statutu spicali. Osservamulu e facemulu osservari!”.
Pasquale Hamel, noto storico, verso la fine del suo scritto d’apertura “storica” intitolata “Italia, l’idea che non c’era”, pubblicata sul mio programma di sala, testualmente, scrive: “Oggi, naturalmente, molte cose sono cambiate, i Siciliani non sono più quel popolo assente e ignorante da trattare come cittadini di secondo livello, sono essi stessi che fanno la storia dell’Italia, eppure nelle masse il senso di diversità permane e con esso il senso della sconfitta di fronte ad un destino che ha loro assegnato un ruolo non adeguato alla loro storia. Un destino che, ironia della sorte, «malgradu tuttu» hanno forgiato loro stessi”.
“[…] riappropiarci della nostra dignità di italiani che hanno deciso di fare i conti con il presente e con il passato”, così scrivi caro Direttore e il mio spettacolo si chiude proprio con il Cantastorie che entra in scena e canta: “Malgradu tuttu, malgradu tuttu, / malgradu tuttu, nuatri siciliani, / ca di lu Statu picca e nenti avemu avutu, / cantamu in coro:semu pi l’Unità, / Italia una sula / Perepè, perepè, perepè, / di l’Alpi a Capo Passero, / malgradu tuttu, malgradu tuttu, / viva l’Italia supra di tuttu!.”. Dalla sala, in compagnia di due ragazzini, entra una bambina, che interpreta la “giovine Italia” e accompagnata solo dalle prime note, al pianoforte, canta l’Inno degli Italiani.
C’è da dire che non ci sono, in questo periodo di processo di revisione storica, soltanto i libri scritti dal dottore Aprile, al quale non tolgo alcun merito della sua illustre carriera di giornalista e scrittore (vicedirettore di “Oggi” e direttore di “Gente”, eccetera, eccetera, eccetera) e il fatto che sia nativo di Gioia del Colle, un piccolo centro in provincia di Bari, quindi pugliese come me (di nascita), “terrone” a tutti gli effetti, me lo rende ancora più simpatico. Ma non posso esimermi dal citare altre pubblicazioni e, in particolare, mi riferisco ad una stampata nel febbraio del corrente anno, pubblicata a Palermo, di un giornalista pubblicista che vive a Palermo. Si chiama Ignazio Coppola, il titolo è Risorgimento e risarcimento. La Sicilia tradita. Garibaldi tra apparire ed essere. Ho avuto il piacere di conoscere l’autore che nell’ultima di copertina afferma che: “Il presente saggio è la riedizione in buona parte riveduta e ampliata di quello già pubblicato nel maggio del 2008. Alla prima edizione, rendendola più completa e aggiornata, sono stati aggiunti nuovi capitoli, nuove ricerche e trattazioni finalizzate alla ricerca di nuove verità storiche che, nel contesto delle celebrazioni del 150º anniversario dell’Unità d’Italia, inducono a riflessioni amare su come tale processo unitario si è realizzato e dei prezzi incommensurabili che le popolazioni del Sud e della Sicilia furono costrette a pagare rimanendo, per questo, creditrici di verità mai raccontate dalla storiografia risorgimentale”. E questa presentazione, che brevemente apre alla lunga querelle post-risorgimentale, chiude con una dotta citazione che vale la pena riportare, in considerazione del fatto che la nostra cultura, o meglio al nostro apprendimento è stata imposta una brusca frenata, impressa da una classe politica più ignorante del corpo docente e, quindi, discente. La massima è di Virgilio ed è tratta dalle “Georgiche: “Felix qui potuit cognoscere causas”.
Il libro di Coppola denunzia situazioni per lo più sconosciute ed apre ad una nuova lettura del personaggio Giuseppe Garibaldi, il “Libertador”, il “Dittatore”, il “Generale” che, nella tradizione popolare siciliana era, anche, dipinto: “[…] vinni ‘Aribaldi lu libiraturi: / ‘nta lu so cori paura nun teni. / Ch’è beddu Caribaldi ca mi pari / San Michiluzzu arcangilu daveru; /la Sicilia la vinni a libbirari / e vinnicari a chiddi ca mureru: / quannu talìa Gesù Cristu pari, / quannu cumanna Carlu Magnu veru! …”. Un ritratto completamente diverso da quello tracciato da Guido Gerosa nel suo libro “Il Generale. Vita di Giuseppe Garibaldi”, edito nel 1986 dalla ERI/Edizioni Rai Radiotelevisione Italiana, che recava, manco a dirlo, la prefazione di Bettino Craxi e dal quale Luigi Magni realizzò per la televisione l’omonimo film, con l’interpretazione di Franco Nero, nel ruolo del protagonista.
Il libro di Coppola merita una attenta lettura e una doviziosa divulgazione, perché non ha avuto, per quelle caratteristiche peculiari della nostra carente editoria, il necessario apparato delle case editrici operanti in territori al di là del Faro, per dirla con una terminologia borbonica, anche se l libro è arricchito dalla prefazione di Rodo Santoro e dalla postfazione di Lucio Zinna.

Infine, caro Direttore, tu sostieni che: “Vittorio Emanuele II e i Savoia non hanno alcun titolo per restare – anche sotto forma di statue equestri – nelle città del Sud, perché la presenza di questi ‘segni’ negativi allontana il Sud dall’Italia. E allora apriamo un dibattito – lo ripetiamo: pacato ma fermo – per dire a chiare lettere che il Mezzogiorno, con i Savoia, non vuole avere nulla a che fare”. Sono d’accordo, togliamo le statue di questi affamatori che, già, nel lontano 1713, diedero prova di cosa fosse l’illustre Casata, con Vittorio Amedeo II di Savoia, che da duca diveniva re e pertanto cingeva, in grande pompa magna, la corona di re di Sicilia, impostagli nel duomo di Palermo il 24 dicembre. Lunga sarebbe raccontare la storia, le delusioni, il pesante sistema tributario imposto. Nella tradizione popolare è rimasto il seguente strambotto: “Ciànciunu Regalbutu e Mulimenti, / lu cannizzu nun civa a la tramoja, / ppi la fami gastìmanu li genti, / ervi e carduni sunu la so gioia; / arsi li terri, persi li simenti, / pari ca cci passò casa Savoia! / Senza cresii, campani e sacramenti, / megghiu lu Papa ni dassi a lu boja!”
Togliamo le statue equestri, ma togliamo, anche dalla toponomastica cittadina alcuni nomi che ci offendono: in primis, quello del generale Cadorna, l’artefice della disfatta di Caporetto e le relative decimazioni. Apriamo un dibattito – lo ripetiamo: pacato ma fermo, ma che ciò avvenga e non rimanga la classica Vox clamantis in deserto .

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lino Piscopo

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