I nuovi consorzi di comuni e il rebus dei tributi

CHI E COME RISCUOTERA’ I TRIBUTI DI COMPETENZA DELLE PROVINCE? LA RIFORMA APPROVATA DALL’ARS NON E’ CHIARA…

di Massimo Greco (*)

Dopo avere evidenziato il problema del potenziale, quanto verosimile, esubero di personale delle ex province regionali in rapporto alle, non ancora, individuate funzioni amministrative in capo ai consorzi di comuni, la novella riforma n. 8 del 24 marzo 2014 non ha sciolto il nodo della potestà impositiva, cioè di chi e come verranno accertati e riscossi i tributi prima di competenza provinciale.
Il comma 6 dell’art. 1 stabilisce che i consorzi continuano ad esercitare le funzioni già attribuite alle province regionali mantenendo la titolarità dei relativi rapporti giuridici.

Il comma 7 stabilisce che i consorzi continuano ad utilizzare le risorse finanziarie, materiali e umane già di spettanza delle corrispondenti province regionali. Tale previsione contrasta con l’art. 117, comma 2°, lett. e, Cost. in base al quale non è consentito alle Regioni derogare alla disciplina dei tributi dello Stato. Infatti, come ha affermato la Corte costituzionale, in attesa dell’attuazione da parte del legislatore statale del nuovo disegno costituzionale di cui all’art. 119 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, l’attuale sistema rimane caratterizzato dalla permanenza di una finanza regionale e locale ancora in parte “derivata”, cioè dipendente dal bilancio statale, e da una disciplina statale unitaria di tutti i tributi, con limitate possibilità riconosciute a Regioni ed enti locali di effettuare autonome scelte.
Pertanto i tributi di cui la legge dello Stato destina il gettito, in tutto o in parte, agli enti autonomi, e per i quali la stessa legge riconosce spazi limitati di autonomia agli enti in ordine alla loro disciplina, in quanto istituiti dalla legge statale, trovano in essa stessa la disciplina propria, salvo che per i soli aspetti espressamente rimessi all’autonomia degli enti territoriali. Da ciò consegue che, salvi gli ambiti di disciplina espressamente riconosciuti dalla legge statale alla competenza regionale, si deve tuttora ritenere preclusa alle Regioni la potestà di legiferare sui tributi esistenti, istituiti e regolati da leggi statali .
Con la novella disposizione, infatti, non si tiene conto che le funzioni amministrative di tipo impositivo non possono essere esercitate da un ente sprovvisto dello status di ente territoriale di governo. Il soggetto attivo del rapporto tributario (sia in relazione all’an che in relazione al quantum) non può che essere un ente pubblico dotato dello specifico imperium (potestà impositiva); potere che deve essere necessariamente esercitato dagli organi elettivi, secondo le procedure democratiche e non mediante delega a soggetti consortili, o associativi, quali sono i consorzi di che trattasi, politicamente irresponsabili perché sprovvisti di autonomia politica.
Peraltro, l’art. 119 della Costituzione attribuisce alle sole Province la facoltà di stabilire ed applicare tributi. Tale articolo stabilisce chiaramente che le “Province…hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa…Le Province hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibili al loro territorio”. La legge delega in materia di federalismo fiscale n. 42 del 05/05/2009 costituisce l’attuazione del citato art. 119 Cost., assicurando autonomia di entrata e di spesa di comuni, province, città metropolitane e regioni, garantendo i principi di solidarietà e di coesione sociale in maniera da sostituire gradualmente, per tutti i livelli di governo, il criterio della spesa storica e di garantire la loro massima responsabilizzazione nonché l’effettività e la trasparenza del controllo democratico nei confronti degli eletti. L’art. 11 di tale legge, rubricato “Principi e criteri direttivi concernenti il finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane” prevede il finanziamento delle funzioni fondamentali anche delle province.
Su questa architettura istituzionale, la cui applicabilità nelle regioni a statuto speciale è circoscritta agli articoli 15, 22 e 27 , si dovrebbe quindi realizzare il principio costituzionale dell’autonomia finanziaria, contenuto nell’art. 119 della Costituzione, di ciascun soggetto territoriale del sistema, fondata su risorse proprie, compartecipazioni ed eventuali riequilibri perequativi. Sulle norme del federalismo fiscale trova consacrazione il nesso inscindibile tra assetto delle competenze amministrative e assetto delle risorse finanziarie, nella prospettiva di una piena valorizzazione dell’autonomia finanziaria delle province regionali. In tale contesto, fermo restando le prerogative riconosciute nello Statuto agli articoli 36 e 38, “anche per le Regioni speciali appare ineludibile l’applicazione del criterio dei costi standard, superando la logica dei trasferimenti legati ai costi storici o a nell’ambito della definizione delle norme d’attuazione o delle leggi finanziarie annuali, in modo che – pur salvaguardando le maggiori sfere di autonomia e di funzioni riconosciute – non ci si discosti da un’impostazione di sistema che deve sostanzialmente fondarsi su principi comuni e sulla ratio delle pari opportunità, di cui l’art. 119 è inequivocabilmente espressione, anche a tutela della coesione nazionale” .
La questione della natura giuridica dell’ente intermedio rileva non poco ai fini dell’esercizio delle funzioni impositive. Infatti, mentre il libero consorzio di comuni ha tradizionalmente (art. 31 del TUEL), ma anche secondo le previsioni di cui all’art. 20 della l.r. 18 marzo 1955 n. 17 ed all’art. 13 del d.l. del Presidente della regione n. 6 del 29/10/1955, “…natura di ente pubblico non territoriale, dotato di autonomia amministrativa e finanziaria” ed avente natura associativa e strumentale rispetto agli enti che vi partecipano, la provincia regionale è, anche per espressa volontà del legislatore (art. 4, comma 3, l.r. n. 9/86) un ente pubblico territoriale che realizza l’autogoverno della comunità consortile e sovrintende, nel quadro della programmazione regionale, all’ordinato sviluppo economico e sociale della comunità medesima. Secondo il Giudice delle leggi, “La provincia è, per sua natura ente territoriale e tale è anche la provincia siciliana, la quale, sia pure con l’attuale regime di amministrazione straordinaria, sopravvive fino a quando verranno creati i liberi consorzi tra comuni (art. 266 dell’ordinamento amministrativo degli enti locali nella Regione Siciliana” .

L’ente consortile costituisce certamente un’entità soggettiva autonoma e distinta dai singoli comuni che ne fanno parte, sicché ogni attività svolta dai propri organi va imputata esclusivamente all’ente che essi rappresentano e non ai vari soggetti che di questo fanno parte e che hanno contribuito a costituire, pertanto “l’ente consorziale gode di propria soggettività” . Tuttavia, l’ente consortile non può contare sulla rete di protezione costituzionale, invece prevista per gli enti locali, in quanto sprovvisto del requisito dell’autonomia politica sotteso allo status di ente di governo territoriale. Infatti, “Il Consorzio d’ambito (quantunque composto dai Comuni rientranti nell’A.T.O.) non può essere annoverato tra gli enti dotati di costituzionalmente protetta” . Diversa è invece per la giurisprudenza la dimensione giuridica dell’ente locale secondo cui “gli enti locali non possono farsi rientrare nel concetto di enti pubblici regionali o vigilati dalla Regione, trattandosi di enti autonomi che nella legislazione regionale vengono generalmente indicati come ” .

Il libero consorzio di comuni è quindi un ente che presenta solo due tipi di autonomia, quella amministrativa e quella finanziaria, risultando sprovvisto della terza autonomia, quella politica, di cui è invece dotato l’ente territoriale sia comunale che provinciale. Dello stesso avviso è la citata giurisprudenza del Tar Palermo , secondo cui “l’art. 15 dello Statuto attribuisce, evidentemente, una diversa configurazione all’assetto istituzionale sovra comunale rispetto a quello attualmente esistente e scaturito dalla l.r. 6/5/1986, n. 9 e s.m.i. che ha attuato la norma costituzionale solo apparentemente secundum legem nel momento in cui ha determinato l’organizzazione delle province nella Regione Siciliana, come nel resto dell’Italia, quali enti locali territoriali dotati di autonomia anche politica e non solo amministrativa e finanziaria”.

La trasformazione dell’attuale ente territoriale di governo in ente consortile genera quindi un problema che la legge in questione sembra non affrontare adeguatamente. Questa considerazione si impone anche alla luce del generalissimo principio vigente in materia tributaria, dotato di dignità costituzionale nel nostro ordinamento ai sensi dell’art. 23 Cost., e certamente valevole anche con riguardo alla fiscalità locale, secondo il quale l’esercizio della potestà impositiva nei confronti dei cittadini richiede, quale suo indispensabile presupposto, una legge attributiva della relativa potestà pubblicistica (no taxation without representation). Ne deriva che l’esercizio del potere impositivo, espressione diretta della sovranitas, non può essere delegata ad enti che non siano investiti, direttamente ex lege, della potestas impositionis e, quindi, soggetti al controllo diretto dei cittadini (soggetti passivi d’imposta).

Non sfugge a chi scrive che alle consorelle unioni di comuni il legislatore statale ha recentemente affidato la “titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei comuni associati nonché quella patrimoniale“ e che questa facoltà ha ricevuto nei giorni scorsi il placet della Corte costituzionale , ma la fattispecie è decisamente diversa per almeno due ragioni. La prima perché comunque il legislatore statale, a differenza di quello siciliano, si è premurato di trasferire espressamente in capo alle costituende unioni di comuni la citata titolarità; la seconda perché l’affidamento della potestà impositiva si riferisce alle funzioni già esercitate dai comuni stessi per mezzo dell’unione. Nel caso che ci occupa, in disparte l’assenza di una specifica copertura legislativa, il consorzio di comuni erediterebbe una potestà impositiva esercitata dalle province, cioè da enti territoriali diversi dai comuni, che sono stati, nel tempo, espressamente individuati da norme statali.

Risulteranno pertanto sprovvisti di adeguata copertura legislativa le funzioni amministrative riferite ai tutti i tributi ancora oggi accertati e riscossi dalle province regionali: l’addizionale all’accisa sull’energia elettrica; il tributo per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene ambientale, l’imposta sulle assicurazioni contro la responsabilità civile dei veicoli; la compartecipazione al tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti; l’imposta provinciale di trascrizione; il tributo per il controllo degli impianti di riscaldamento termico; la TOSAP.

In attesa di un urgente intervento normativo coordinato tra Stato e Regione, la mancata riscossione dei citati tributi si ripercuoterà inevitabilmente sulle entrate dei consorzi di comuni e, di riflesso, sui sistemi finanziari dei comuni consorziati, costretti a ripianare le fisiologiche perdite d’esercizio per assicurare anche il pagamento delle retribuzioni delle risorse umane impegnate nei settori tributari delle province regionali.

9-La novella disposizione si riferisce al nuovo comma 2 dell’art. 16 del d.l. n. 138 del 2011, come sostituito dall’art. 19, comma 2, del d.l. n. 95 del 2012, poi convertito, nella parte in cui affida all’unione di comuni la titolarità della potestà impositiva sui tributi locali dei comuni associati, nonché quella patrimoniale, con riferimento alle funzioni da essi esercitate per mezzo dell’unione medesima.
Corte Cost. sent. 13/03/2014 n. 14.

(*) Funzionario Direttivo della Regione Siciliana e Cultore di diritto pubblico e comparato all’Università Kore di Enna – massimo.greco@unikore.it

Massimo Greco

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