I Faust allo Zo per So Far

Faust. E’ un po’ come dire Amen. Dall’altra parte del mondo, però. Perché ci pensi, li ascolti, realizzi. Poi li vedi. Li vedi sul serio, a due metri di distanza, con attrezzature che manco un cantiere. E allora ci pensi, li vedi, li ascolti, realizzi. E pensi che questi qua l’hanno venduta davvero l’anima al diavolo. Tamburi, grida, scintille, eco, immagini sullo sfondo che proiettano l’ascoltatore in una dimensione talmente vicina al rumore da rasentare il silenzio più assordante. E il sordo fragore che ti fa sgranare gli occhi “e organizzare e analizzare e alla fine capire che nessuno sa se è realmente accaduto”, tanto per prendere in prestito un frammento dal testo della meravigliosa “Miss Fortune”. Il tempo è un macigno che piomba in sala all’improvviso, la gente, la puzza di sigarette: è come se ogni cosa facesse parte di quello spettacolo, come se in quella sala, tutto e tutti si fossero presi una pausa dal mondo, là fuori. La dimensione del reale e del surreale, della melodia e del rumore: tutto si perde e si amalgama, come una diafana deflagrazione, come un big bang.

Introduzione a cura di Michele Leonardi

 

 

Presentazione:

Dadaismo industriale. “This is not music”, ripete più volte e provocatoriamente Jean-Hevrè Peron, dimostrando che l’arte non ha limiti e la musica può nascere in qualunque modo, basta che tocchi l’animo. E’ musica sincera e spontanea, impressionante ed emotiva. E quello di stasera è uno spettacolo più unico che raro: i Faust, come unica tappa in Italia, decidono di aprire il So Far Festival (Tarwater, Kill The Vultures, e Murcof gli altri nomi) tenutosi dall’8 al 10 Dicembre a Catania, presso il Centro Culture Contemporanee Zo.

 

Prima un piccolo passo indietro: i Faust di ieri erano un collettivo tedesco appartenente alla nascente scena kraut-rock dei primi anni settanta (dovrebbero ricordarvi qualcosa Can e Neu, giusto per citare i nomi più noti); una band per la quale l’arte, nella sua concezione più pura, era l’unico fine della composizione, una band che ci consegnava tre grandissimi dischi (Faust, So Far, IV), regalando alla musica più o meno rock un numero infinito di spunti e divenendo così fonte d’ispirazione per numerosissimi artisti; dei precursori, insomma (si pensi alla new wave più industriale, ma anche a certo post-rock prevalentemente strumentale).

 

Oggi, dei “vecchi” Faust rimangono Jean-Hevrè Peron e Werner “Zappi” Diermaier, originari membri fondatori, coadiuvati da Olivier Manchion e Amaury Cambuzat, entrambi componenti fissi della formazione franco-italiana degli Ulan Bator. E se è vero che i due provengono –almeno apparentemente- da un universo musicale differente, l’amalgama risulta comunque omogeneo: unità di intenti e similitudini di idee.

 

Il concerto:

La strumentazione, prima di tutto, improbabile; o forse probabile, ma alla maniera dei Faust. Giunti in orario dinanzi al palco, ci si trova di fronte vari “non-strumenti”: elmetti da guerra, un secchio pieno di ghiaia, lamiere e ferraglie, un paio di grosse catene, una betoniera, una smerigliatrice, una saldatrice ad elettrodi, e –udite, udite- un ferro da stiro, con tanto di asse. Al centro si pone un telaio metallico che divide il palcoscenico in due parti uguali, e due compagini, separando Peron e Diermaier da Cambuzat e Manchion.

 

Dopo pressappoco un’ora, il concerto ha inizio. Si parte subito alla grande con uno dei brani più celebri e toccanti, la sognante It’s A Bit Of Pain, un inno, canzone-capolavoro per chi scrive; a seguire, la ritmica semi-reggae sbarazzina di The Sad Skinhead, tutta da cantare, la quale vede Zappi a scandire, o sarebbe meglio dire “martellare”, il tempo sulle lastre metalliche sopra citate. Questi primi due brani, tratti entrambi da Faust IV (1973), nonostante vengano dilatati e resi più violenti dal vivo, costituiscono probabilmente la parte più melodica e tradizionale del concerto. Conclusa l’esecuzione delle suddette tracce, si regala ampio spazio all’improvvisazione. Ghiaia lasciata cadere sugli elmetti prima, e sul pubblico poi, catene che divengono fruste tuonanti contro lamiere di metallo: le porte di un differente orizzonte musicale si spalancano, nel segno di un’assoluta libertà volta al raggiungimento di un rapido crescendo emotivo, che esploderà, sul finire, in un caotico delirio strumentale. La comparsa in campo di un fabbro, inoltre, conferisce all’atmosfera un tocco ancora più particolare, eliminando, a suon di fiamme e scintille, la barriera che divideva (almeno per gli spettatori) la band.

 

Una seconda improvvisazione prevede un’ambientazione suggestiva, l’utilizzo, da parte di Peron, di un particolare strumento a corde triangolare, accompagnato poi dalla declamazione di alcuni versi in diverse lingue ed in coro (Peron in francese, seguito dal tedesco di Zappi e dall’italiano di Manchion). In tale porzione di spettacolo, i due francesi saggiano ordinatamente bassi, chitarre, ed elettronica. Si riparte con Psalter (da 71 Minutes, pubblicazione del 1979 che raccoglie materiale del triennio 1971-1973), rifacimento della Giggy Smile presente su Faust IV. Una chitarra acustica, una clavietta, spazio persino per un sassofono. L’episodio successivo è So Far, brano incluso nell’omonimo disco del 1972 e padre del nome della manifestazione: un trascinante e coinvolgente brano strumentale, nel quale si sente maggiormente, a livello sonoro, la presenza e l’importanza dell’apporto degli Ulan Bator.

 

Lo spettacolo non è ancora terminato, e non accenna a perdere quella intensità che lo ha contraddistinto lungo tutto il suo corso: atto terzo di improvvisazione (sulla scaletta risponde al nome di Klangblock). Un denso e carico miscuglio d’emozioni trasmesse non soltanto dalla musica, ma anche grazie all’ausilio delle vive scintille che si riversano sul pubblico delle prime file e le grida di un coro di cinque voci femminili, preparato per l’occasione. A questo punto, un divertente siparietto: Peron si diletta a stirare per bene –ricordate il ferro da stiro?- una maglietta sottratta ad un ragazzo in prima fila e, contrariamente a quanto si potesse pensare, la restituisce in perfetto stato. Le danze si riaprono ancora, con Listen To The Fish, tratta da Rien (il disco che segnò il ritorno dei Faust negli anni novanta), e Flashback Caruso, estratta dalle Faust Tapes (editi nel 1973). La galoppata verso la fine giunge con altri due pezzi, estrapolati da 71 Minutes: la splendida Chromatic e l’ottima esecuzione, dilatata anch’essa, di 25 Yellow Doors.

 

I quattro si allontanano frettolosamente per ricomparire in mezzo agli applausi del pubblico, salutandolo con uno dei loro brani più noti: It’s A Rainy Day (Sunshine Girl), tratto da So Far. Parte in fretta e furia il ritmo forsennato della batteria di Zappi, laddove Peron si trova abbracciato dalle voci degli spettatori: “it’s a rainy day… sunshine girl…”, si alza un coro. E’ un bis che posa delicatamente la ciliegina sulla torta, che soddisfa a tal punto da non avere il coraggio di chiedere null’altro. Si è assistito ad un evento, e lo sanno tutti. Uno di quelli cui non si è soliti, uno di quelli da segnare in rosso sul calendario, uno di quelli con la E maiuscola, uno di quelli che non si dimenticano. Mai. Prima di prendere definitivo commiato dalla sala, l’occhio cade involontariamente sul poster della manifestazione. “So Far”, recita. Ma la leggenda, stasera, la si è vissuta da vicino.

 

Scaletta:

 

It’s A Bit Of Pain

The Sad Skinhead

Frei / ruhig

Frei / lauf

Psalter (Giggy Smile)

So Far

Klang Block

Listen To The Fish

Flashback Caruso

Chromatic

25 Yellow Doors

-encore-

It’s A Rainy Day, Sunshine Girl

 

Eugenio Randazzo

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