Ho passato in rassegna l’archivio del magazine online che Enrico Escher ha fondato all’università di Catania e diretto per tre anni. Enrico era di manica larga, spesso delegava ai ragazzi anche la scelta dei titoli. Se protestavo, avendo trovato un perché con l’accento grave: “Ma che figura ci facciamo? Siamo o non siamo un giornale dell’università?”, “Appunto, impareranno” rispondeva liquidandomi con un sorriso.
Adesso però non sono a caccia d’errori d’ortografia. Cerco un titolo che sia suo in maniera inequivocabile. Mi fermo su “I complimenti fanno sempre piacere!”. Fu usato nel riportare un articoletto con cui, su “La Sicilia”, Eva Spampinato copriva di lodi la squadra di Step1 per essere riuscita a battere i siti dei più grandi quotidiani nazionali mantenendo la prima posizione su GoogleNews durante lo spoglio delle politiche del 2006, una nottata di passione che è entrata nell’epica della redazione. Sì, senza dubbio: “I complimenti fanno sempre piacere!” è un titolo di Enrico Escher. Anzi è un’espressione che gli avevo sentito ripetere tutte le volte che uno studente, meglio se una studentessa, si rivolgeva a lui in tono adorante. Voleva dire: “Sappiamo tutti e due che stai esagerando, può darsi che pensi solo agli esami, ma accettare è un dovere”.
Enrico in cattedra è stato l’ironia al potere. O meglio l’autoironia e la curiosità. Tutto il contrario del tono sostenuto, saccente, fondamentalmente autarchico, che è parte del Dna del docente universitario. Era venuto all’università per sperimentare. Ha inventato Step1, ha inventato Radio Zammù, ha convinto i migliori studenti della facoltà a impegnarsi allo spasmo senza badare ai famigerati “crediti”. La sua scommessa aveva qualcosa di assurdo: costruire un giornale, una radio, una televisione, un moderno progetto editoriale multimediale che non fosse soltanto un esperimento accademico ma potesse diventare un vero e proprio “medium cittadino”, avvalendosi di studenti universitari che – lo stato delle cose era inoppugnabile! – non avevano neppure l’abitudine di leggere un quotidiano.
L’esperimento di Enrico fu provare a trasformare questo handicap in un’opportunità. Era affascinato dalla contaminazione dei media, ma ancora di più dalla contaminazione dei linguaggi e dalla divaricazione tra le generazioni; dai ragazzi che non parlano al telefono ma lo leggono, cresciuti a video clip e videogames, poveri di parole ma ricchi di immagini. C’è un bellissimo articolo in cui presentò il progetto sull’organo ufficiale dell’Ateneo: “Cosa abbiamo noi da dire a questa generazione? – scriveva – Moltissime cose, naturalmente, alcune delle quali fondamentali. Ma come possiamo provare a farci ascoltare? Come possiamo dare loro la chiave che porta alla curiosità del conoscere? Come trasformare una tendenza che in loro è innata – come lo era in noi, ricordate? – in una forza in grado di capire e spiegare?”.
Non so dire quanto la sua proposta sia stata intesa. L’università è uno strano mondo, capace di tollerare tentativi di innovazione persino nel corpo austero, orgoglioso e un po’ rinsecchito delle discipline umanistiche, ma è anche un’istituzione fondamentalmente conservatrice che ha regole sue. E’ ragionevole credere che la maggior parte dei colleghi abbia accolto gli esperimenti di Escher come un fenomeno di creatività surreale che mette a dura prova le leggi della fisica, non meno delle celebri metamorfosi del grande pittore suo omonimo. Alcuni – in pochi – ci siamo lasciati coinvolgere, sicché dalla collaborazione è nata una reticente amicizia. Ma adesso tutti quei messaggi di ragazze e ragazzi arrivati dal web per ricordarlo sono complimenti della cui sincerità non si può più dubitare. Gli esami sono finiti per sempre, Enrico potrebbe accettarli senza ironia.
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