I boss di Corleone e il progetto di attentato ad Alfano «Gli cafuddiamo, gli facciamo fare la stessa fine di Kennedy»

Progettavano di ucciderlo a casa, in Sicilia. Un attentato là dove il capo del Viminale, Angelino Alfano, si sentiva più al sicuro, nella sua Agrigento. «Lo fottiamo a questo, gli cafuddiamo una botta in testa». Parlavano i boss di Corleone, finiti all’alba di oggi in manette nell’ambito del blitz antimafia Grande Passo 3 eseguito dai carabinieri. Discutevano di piani di morte e di lezioni da dare. Studiavano come colpire il ministro dell’Interno, colpevole dell’aggravamento del carcere duro. Raccoglievano i malumori della galera nei confronti di chi, dicevano, eletto con i loro voti aveva voltato la faccia.

«Qua è andata a finire che nessuno ci vuole dare conto» diceva Pietro Paolo Masaracchia, capo della famiglia di Palazzo Adriano intercettato dalle cimici degli investigatori. «A bordello è finito» replicava Pietro Pollichino, referente della famiglia di Contessa Entellina. Ecco che allora bisognava pensare a qualcosa. Una punizione esemplare nei confronti di chi si era scordato di loro. «Questo Angelino Alfano è un porco con le persone… chi min… glielo ha portato allora qua con i voti di tutti… degli amici… è andato a finire là… insieme a Berlusconi ed ora si sono dimenticati di tutti. Dalla galera dicono cose cose tinte su di lui. Se c’è l’accordo lo fottiamo a questo, lo fottiamo, gli cafuddiamo una botta in testa… ci vuole un po’ di impegno, gli cafuddiamo una botta in testa… però noialtri. Non perdiamo la faccia, noialtri siciliani. È un cane per tutti, per tutti i carcerati Angelino Alfano».

Chiacchieravano i nuovi boss di Corleone, che vivevano all’ombra di un mito: quello della mafia di Riina e Provenzano. E pensavano che occorreva agire. Per non perdere la faccia. Un attentato in grande stile come quello di John Fitzgerald Kennedy, il presidente degli Stati Uniti ucciso a Dallas il 22 novembre 1963. Un omicidio deciso da Cosa nostra, così dicevano i padrini di Corleone intercettati dalle cimici degli investigatori. Una morte plateale messa a punto dai mafiosi d’America per punire il presidente dei voti dei mafiosi dimenticati. Proprio come Alfano. «Gli facciamo fare la stessa fine» dicevano rabbiosi. E mentre le cimici degli investigatori li intercettavano si lasciavano andare a confessioni. «Perché a Kennedy chi se l’è masticato? Noi ce lo siamo masticato, noialtri là in America! E ha fatto le stesse cose: che prima è salito con i voti di Cosa nostra americana e poi gli ha voltato le spalle. Dunque se non ci difendiamo…». 

Bisognava capire dove agire. «A Roma ho già il posto, c’è gente che ha una casa e la mette a disposizione il giorno prima» spiegava Masaracchia, dicendosi pronto a partire. Il momento giusto è quando dorme: «Appena a lui cala il sonno. Noialtri lo dobbiamo sminchiare dove lui se ne va a dormire, quando lui se ne va a dormire». «Se non piangono le famiglie! Non è nessuno mischiato con niente» gli faceva eco Vincenzo Pellitteri, capo famiglia di Chiusa Sclafani. Ma soluzione di Roma non convince i boss di Corleone. Meglio Agrigento, allora. «Qua appena ci sono le elezioni lui si porta e se ne viene qua ad Agrigento, che vuole i voti degli agrigentini. Qua lo potremmo fottere». Un’ipotesi che piace anche a Pellitteri: «Qua lo dobbiamo aspettare, tra due anni ci sono le elezioni. Noialtri il malo secco lo dobbiamo levare qua».

Una linea dura non appoggiata da tutti dentro il mandamento, diviso tra due correnti: quella di Salvatore Riina e quella di Bernardo Provenzano. Una frattura antica che le indagini coordinate dal procuratore aggiunto, Leonardo Agueci, e dai sostituti Sergio Demontis, Caterina Malagoli e Gaspare Spedale, hanno documentato. Ancora una volta. L’attentato rimase un progetto, questo dicono gli investigatori. Probabilmente perché a capo del mandamento c’era un fedelissimo di Provenzano, quel Rosario Lo Bue, 62 anni, pastore di professione e fratello di Calogero già condannato per il favoreggiamento di zu Binnu. Una leadership, la sua, contrastata dall’ala più oltranzista che rimpiangeva i tempi d’oro di Riina. 

Rossana Lo Castro

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