‘Hello, pigs!’. Frank Zappa dentro e fuori le righe

Se anniversari e ricorrenze varie servissero a traghettare certi artisti oltre il problematico Stige che divide i sempre più inutili territori del “culto” e dell’“extraculto”, Frank Zappa non si troverebbe ancor oggi in quell’opaco Limbo dal quale pare non sia riuscito a strapparlo nemmeno la patente fornitagli da Pierre Boulez altrove capace invece di liquidare, forse frettolosamente, le posizioni schönberghiane. Se Duke Ellington avesse avuto ragione e se dunque fosse possibile ancor oggi far scendere una lama sottile tra il “bello” e il “brutto”, a dieci anni di distanza dalla sua scomparsa, Zappa non avrebbe bisogno di celebrazioni o ricordi. E se tra tutte le storie la sola a potersi davvero scrivere coi se e coi ma è quella che parla d’arte, non è inutile ripercorrere le stazioni di un’apparentemente inesauribile vena compositiva  – della quale la produzione discografica non è che la pallida immagine dell’Idea –  domandandosi perché oggi, chiedendo agli studenti di un qualsiasi corso universitario se conoscono Frank Zappa, non si assiste che ad uno sterile deserto sul quale si alzano poche ed incerte mani.

 

A chi chiedesse chi era Frank Zappa si potrebbe latinamente rispondere per negazioni, quelle stesse con le quali si definiva: «Non sono bizzarro, sono stati gli altri a dire che lo sono». Si potrebbe inventare una prosopopea ed aver agio per parafrasare certi suoi motti buoni per altrettanti ironici aforismi o per un’improbabile riscrittura dei momenti cruciali del suo breve tour. Si potrebbe provare a inventare: “Non sono uno scrittore ma ho scritto un libro perché c’è addirittura qualcuno che li legge” (come provocatoriamente informa nell’Introduzione alla sua autobiografia scritta a quattro mani con Peter Occhiogrosso e pubblicata nel 1989 col titolo The Real Frank Zappa Book); “le donne mi interessano più della musica e tengo ‘na minchia tanta”; “disegnare cartoline d’auguri è redditizio” (ché fu uno dei tanti lavori che si trovò a fare lasciato il Chaffey Junior College); “non sapevo che la pornografia fosse illegale”; “le biciclette sono buoni strumenti a fiato” (come dimostrò nel 1963 allo Steve Allen Show soffiando nei tubi del manubrio di una bici); “la mamma è sempre la mamma o meglio the mothers is always The Mothers”; “il water è un luogo di profonda meditazione” (come sembra rivelare la celebre foto di “IT”); “il jazz è fatto di piccoli ombrelli o meglio di little umbrellas”; “il power flower inebetisce”; “le rivoluzioni si fanno con le stupid songs”; “la parte più sgradevole del corpo di un uomo è la mente”; “si vive per il denaro”; “la musica è una decorazione del tempo”; “essere in vetta alle classifiche discografiche non protegge dagli insulti”; “l’arte consiste nel fare qualcosa di inutile e poi venderla e, comunque, non protegge dalla morte e non regala l’Immortalità”.

 

E se il rock fosse legittimamente considerato solo un altro dei possibili modi di far arte, Zappa sarebbe stato il Vate di un multimaterico “pulp-rock” da demitizzare “a colpi di sequencer”, da irridere violandolo col manico di una chitarra fino a provocarne un “G-Spot tornado”, del quale sfregiarne il commerciale sorriso con baffi e con un’ipertrofica “mosca” da moschettiere dell’“altro” e dell’“oltre”.

 

Quell’“altro” e quell’“oltre” venivano al “pornografo dei suoni” dalla frequentazione di un olimpo ignoto ai coetanei di allora e di sempre in cui le “ionizzazioni” varèsiane, le più o meno neoclassiche “sagre” strawinskiane e l’aforisma estremo weberniano si fondono in un universo sonoro in cui alla poetica dell’“effetto” si coniuga la strenua ricerca di una legittimazione basata su strumentazioni a lungo ripensate.

Impossibile non cadere nella tentazione di pensare all’ultimo lavoro di Zappa, The yellow shark, come ad una sorta di testamento spirituale, di riassunto e, nello stesso tempo, di proposta. In questa luce, si staglia il giallo di una tavola da surf trasformata dall’estro dell’artista in uno squalo per diventare l’irridente simbolo di un “ritorno alla forma”: la suite si fa debussianamente rigorosa nell’orchestrazione e nuova nell’incontro sinergico di elementi sonori ed elementi scenici; l’intento potrebbe essere quello di riscrivere la propria “storia musicale” facendone un microcosmo dell’intera storia musicale e riproponendo un Quartetto d’archi lavato nell’Arno dell’astrattismo e certi della lezione informale e, accanto ad esso, un tango in cui dentro un bar esplode il concreto caegiano; formalmente, se ne potrebbe fare un microcosmo ripensando il diatonismo a partire dalla suggestione del colore dei tasti di un pianoforte. La riscrittura moderna della Fuga trova infine la sua cittadinanza in G-Spot tornado in cui il tema reiterato si insegue nella successiva riproposta da parte di ogni strumento dell’ensemble che replica un rito, un’idea incandescente, un pensiero capace di esplodere nell’orgasmo dell’ultimo colpo di gong.

 

L’articolo è precedentemente apparso su www.postcontemporanea.it e si trova all’interno del libro dell’autrice dell’articolo Ho un sassolino nella scarpa, Acireale, Catania, Bonanno, 2005.

Emanuela E. Abbadessa

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