Hellequin song: storie di canzoni crudeli

Proprio in questi giorni in tutta Italia verrà distribuito il quarto album da solista del cantautore catanese Cesare Basile. Già dalle prime note e poi approfondendo l’ascolto si capisce che la direzione intrapresa è sempre più mirata al blues e al folk, a situazioni sussurrate, chitarra e voce. Canzoni “crudeli” che pur avendo un anima rock implodono verso direzioni più cantautorali, raggiungendo vette d’alta qualità e soprattutto intensità. Incontriamo Cesare Basile in un assolata e fredda giornata di inizio gennaio.


Ti hanno accostato in passato a Nick Cave e Tom Waits. Che ne pensi?

E’ molto lusinghiero certamente. C’è da dire però che, probabilmente, nelle cose che faccio, più che una influenza diretta di un Tom Waits o Nick Cave, si sentono le cose che hanno influenzato loro: il blues, un certo tipo di folk e un particolare approccio alla musica. In questo senso mi hanno influenzato tantissimo, mi hanno aiutato a scoprire quali erano le loro di influenze. Sicuramente sono stati il tramite per capire un certa categoria di musica, per una maniera di intendere l’autorialità di una canzone.


Nei precedenti tre album da solista hai cambiato sempre produttore. Ora riconfermi John Parish. Perché?

Questa volta non ho cambiato produttore perché in occasione del primo album, quando ho lavorato con lui, John (già produttore di Pj Harvey, Tracy Chapman, ecc., ndr) è arrivato a lavoro iniziato. Volevo vedere come era fare un lavoro dall’inizio alla fine con lui. Inoltre, dopo Gran Calavera Elettrica (ultimo disco di Cesare Basile, ndr), abbiamo fatto un sacco di cose insieme: dalla produzione dell’album di Nada al progetto di Songs Without Stranger. Una forte amicizia dunque e una forte voglia di lavorare con lui dall’inizio. Una grande stima reciproca.


Come ha influito John su questo lavoro?

Nello specifico lui è l’avvocato del diavolo. Prende le decisioni che io trovo scomode, perché magari a volte sono più legato ai pezzi, anche in modo morboso e affettivo. E’ l’elemento cinico che si occupa di dirigere il lavoro senza farlo andare verso zone impervie. Controlla il gusto di tutto il lavoro.


Come e quando nasce questo disco?

Questo album è nato nel corso di un anno e mezzo. Completato poi fra settembre 2004 e marzo del 2005. Scritto in massima parte a Milano. Forse il primo lavoro da solista che nasce quasi interamente fuori dalla Sicilia.


Cosa ti ha colpito di questa produzione?

Mi ha colpito molto la maniera in cui lo abbiamo fatto, tutti insieme in questo studio residenza a Rubiera, dove dormivamo e lavoravamo. Era la prima volta che lavoravo così. Vivere e lavorare insieme per quindici giorni. Il gioco è stato molto più gioco, perché avevamo preparato pochissimo. E’ stato un album quasi completamente improvvisato in studio. Ed era una direttiva di John che mi ha detto di non fare pre-produzione ma semplicemente di venire in studio con i pezzi così come erano nati, in embrione: testi, accordi e un minimo di struttura. E’ stato bello, è stato come tornare un po’ indietro, ad una modalità di creazione e registrazione che è un po’ in disuso, ma che è riscoperta ultimamente.


La famosa “presa diretta”…

Sì, “buona la prima”.


Affinità e divergenze con l’album precedente: a me è sembrato meno rabbioso e più rassegnato.

Forse è più crudele, perché lo sguardo dei personaggi sulle cose è più crudele. Fratello Gentile è quello che può dare il senso di questo tipo di cinismo. Sì, forse in questo senso è come dici tu. Sono canzoni che non vogliono scontrarsi con qualche cosa ma probabilmente vogliono raccontare lo scontro che c’è quotidianamente.


Molti pezzi sono scritti in inglese, lo porterete fuori dall’Italia quest’album?

A me piacerebbe, ma non è questo che fa la differenza. Non scrivevo in inglese da almeno tre dischi. Le canzoni in inglese sono nate così, in inglese. Per un esigenza di suono, nel senso che avevo tirato giù la linea melodica e mi suonavano troppo bene in inglese. Sinceramente: ho provato a cantarle in italiano ma non mi convincevano. Ho pensato che era meglio in inglese che perdere una canzone. Ho detto: “Io me ne frego!” e le ho utilizzate. Alla fine in qualche modo la lingua ha anche un valore sonoro e in questo caso è questo che ho scelto.


Nel tuo primo album il titolo La Pelle l’avevi preso in prestito dall’omonimo lavoro dello scrittore Curzio Malaparte, nel testo di ‘In Coda’, brano di Gran Calavera Elettrica, ti ispiravi ad un racconto di Bradubury. Quali autori ti hanno tormentato per Hellequin Song?

Ci sono sempre delle cose, dei tormenti. Poi qui c’è proprio un pezzo, ‘Finito Questo’, che è la ri-scrittura di un poesia di John Donne, un poeta inglese metafisico. E’ stato prendere una poesia e farla diventare canzone. Non una traduzione ma una re-interpretazione. La poesia si intitola ‘Preghiera a Dio Padre’. Tra le altre influenze c’è stato questo simpatico autore di noir inglese, Dereck Rymond, morto qualche anno fa. Il testo di ‘Fratello Gentile’ è stato ispirato da un suo libro: “E morì ad occhi aperti”. Questa è un po’ la mia maniera di scrivere, mi faccio venire le idee dagli stimoli che mi circondano, che può essere la ragazza incontrata in treno per ‘Dite al Corvo’, o un romanzo come in ‘Fratello Gentile’, o una poesia e così via. Per scrivere devi ascoltare e guardare. Poi ti può venire dalla vita reale o da un fumetto, o da un libro.


E il titolo della canzone che dà il nome all’album da dove viene?

Appunto, quello è venuto fuori ad una occasione. Stavo leggendo un fumetto della Bonelli, “La colonna infernale”, che parlava di un mito medievale che era un po’ il dio degli inferi e aveva questa particolarità: girava per i campi di battaglia e reclutava le anime dei soldati caduti, dei più valorosi, e li obbligava a girare con lui nei campi di battaglia a ripercorrere quello che era stato il loro destino e ad arruolare nuovi morti. Per cui sono andato a vedere come era la storia, se c’erano dei riscontri e in effetti c’è una leggenda medievale che narra di Hellequin. Lui, negli anni diventa Arlecchino che è una maschera della commedia dell’arte e non è altro che la raffigurazione grottesca e popolare del dio dei morti. Il costume fatto di pezze colorate non è altro che un costume fatto con i brandelli delle uniformi dei diversi caduti. Questa cosa mi piaceva sia simbolicamente sia per quello che racconta che per lo sguardo sulla guerra dalla parte di chi la combatte, dalla parte dei soldati che sono morti e devono viverla per sempre.


C’è qualche canzone un po’ più tua?

Forse ‘Usa tutto l’amore che porto’. Sono tutte canzoni un po’ mie, che sono state scritte comunque in un periodo di solitudine forte, molto più forte del passato. Stavolta sono stato veramente solo di fronte alle canzoni. Raccontato veramente tutte delle parti, dure, profonde, molto contrastate.


C’è una frase in ‘Il deserto’ che dice: “Piscerai sulla Banca d’Italia…”

E’ stata scritta in tempi non sospetti. Semplicemente è una citazione da un racconto inedito di Piero Ciampi.


E il peccato di cui parli in ‘Finito Questo’?

Quello è lo spirito della poesia di John Donne che dice di perdonare tutti i peccati anche se ce ne saranno sempre degli altri.


Infine c’è pure Pavese con ‘Wind of march’…

Sì, decisamente sì. E’ bello che lo hai notato. Chiaramente è una citazione particolare di un suo verso.

Tu sei sempre molto legato a Catania, come la trovi ultimamente?

Qui sono nato e cresciuto, è la mia città, ma la trovo messa male. Di contro devo dire che ci sono molte persone che fanno bene il loro lavoro, soprattutto dal punto di vista artistico. E’ una città sempre più ipocrita. E non solo dalla parte dei politici. Credo che in linea di massima Catania sia stata sempre una città propensa ad essere accondiscende nei confronti del potere. C’è sempre questa cosa del tirare a campare e del farsi i fatti proprio. Ed è abbastanza triste.


Qualche nome di gruppi locali e nazionali che ti piacciono in questo periodo.

Tellaro, Dog a Dog, FeedMan, per i nomi locali. Marco Parente, Benvegnù, Marta Sui Tubi, Songs For Ulan per i nomi nazionali. In generale la scena italiana è cresciuta molto.


Finiamo col tour, come sarà e quando inizierà?

Inizierà a fine gennaio e dipenderà da dove verrà suonato. Ho la fortuna di avere dei musicisti che riescono a cambiare molto. Di base saremo due chitarre, basso e batteria e in più le tastiere con Chiara Manfroi, la ex degli Scisma. Molto elettrico, ma all’occorrenza rarefatto.

Rocco Rossitto

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