Da sabato scorso il suo telefono risulta spento e non raggiungibile. L’ultimo mistero sul narcotrafficante albanese Moisi Habilaj passa da un piccolo appartamento a San Michele di Ganzaria in provincia di Catania, in quello che per decenni è stato il territorio di riferimento del capomafia di Cosa nostra Ciccio La Rocca. Poche stanze dove Habilaj era sottoposto al regime di detenzione domiciliare senza braccialetto elettronico. Colpa di una condanna in primo grado a 15 anni e 5 mesi, confermata in secondo grado a dicembre scorso. Da alcuni giorni l’uomo non è più reperibile e al momento, come confermano fonti investigative a MeridioNews, è dato come latitante. Su questa storia però non c’è nessuna notizia ufficiale dalle forze dell’ordine italiane.
Alla porta di Habilaj avrebbero bussato polizia e, successivamente, carabinieri. Dal commissariato di Caltagirone si conferma che alcuni agenti sono stati impegnati in ausilio della squadra mobile di Catania. Successivamente, durante un controllo di routine per chi è ai domiciliari, si sono presentati anche i carabinieri. Il verdetto in entrambi i casi è stato lo stesso: «irreperibile». I motivi della prima visita, però, non sono del tutto chiari. «Non abbiamo informazioni, ha proceduto la Guardia di finanza», fanno sapere dalla squadra mobile etnea, chiamando in causa ancora un’altra forza. Le Fiamme gialle, i primi a essersi occupati delle indagini sul cittadino albanese, ma il cui ruolo adesso non sembra risultare da nessuna parte.
Dov’è finito Habilaj? Gli avvocati che lo difendono escludono l’esecuzione di un provvedimento di estrazione in Albania, Paese in cui l’uomo ha affrontato un’indagine parallela a quella della magistratura italiana. La sentenza d’Appello dei giudici etnei, arrivata soltanto a metà dicembre 2020, è ferma al dispositivo letto in aula dai giudici con le motivazioni ancora da depositare in cancelleria e non risulterebbero richieste di misure cautelari in carcere da parte della procura. Il 43enne Habilaj, prima di andare a San Michele di Ganzaria, era stato recluso nel penitenziario di Bicocca. Salvo poi lasciarlo alle 15.24 del 20 maggio 2020 dopo avere passato 954 giorni dietro le sbarre. Poi il trasferimento nella cittadina calatina dove è stato per poco più di un mese ospite di un parente da parte del padre. Successivamente il passaggio in un nuovo appartamento autonomo, sempre nel territorio di San Michele di Ganzaria, e con gli unici spostamenti concessi verso lo studio del suo dentista.
Nelle prime battute del processo di primo grado Habilaj maturò l’idea di parlare con i magistrati senza però mai dichiararsi un collaboratore di giustizia. Ammissioni parziali, in parte valutate positivamente dai giudici, ma che non fecero cadere l’aggravante più pesante: quella di essere il capo. Un’inchiesta della procura di Catania nell’ottobre 2017 svelò l’esistenza di un consolidato canale per la fornitura di droga e armi tra l’Albania e la Sicilia. Affari milionari all’ombra del clan Cappello e della famiglia di Cosa nostra dei Santapaola-Ercolano.
Una storia come tante se non fosse che Habilaj è il cugino dell’ex ministro dell’Interno albanese Saimir Tahiri. Pure lui finito indagato – poi archiviato – dalla procura di Catania nel fascicolo sulla banda capeggiata dal 43enne diventato latitante. Del politico si è anche occupata la procura dei crimini gravi di Tirana, condannandolo a tre anni per abuso di potere, ma assolvendolo riguardo il presunto coinvolgimento nel mondo del narcotraffico. Il procedimento, però, non è ancora chiuso e proprio la testimonianza di Habilaj potrebbe essere decisiva.
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