Grindhouse: ‘a prova di Quentin’

Forse un po’ in sordina rispetto agli sbarchi in pompa magna dei suoi precedenti film, Quentin Tarantino ritorna sulle scene con il pirotecnico e beffardo Grindhouse – A prova di morte. Il progetto di Quentin è assolutamente la conferma di come lui sia un cineasta unico, azzardoso, che “legge” il cinema come il più fico gioco del mondo. Il suo film infatti è solo la prima parte di un “doppio” che verrà completato dall’uscita di “Grindhouse – Planet Terror” (in Italia il 27 Luglio) per la regia dell’amico e compagno di sbronze Robert Rodriguez.

I due – come narra la mitologia di questo recente sghiribizzo cinematografico – hanno deciso di creare una loro “grindhouse” e cioè un binomio filmico spassoso, pulp e demodè in omaggio a quelle sale (appunto le grindhouse), tanto in voga, anni fa, in America, che proponevano due proiezioni b-movie di seguito. E ce li vediamo benissimo entrambi, con qualche chilo in meno e qualche brufolo in più a passare le ore seduti in questi cinema impolverati, magari negli anni ’80, magari ad esaltarsi di fronte ad inseguimenti, sparatorie, gangster, bande di quartiere, tutto pepato dal peggior funky in circolazione. Su Wikipedia viene raccontata così la genesi di “Grindhouse”:

“L’idea venne a Rodriguez e Tarantino quando Quentin portò a casa sua i poster e i nastri originali di alcuni film d’exploitation, completi di trailer prima e durante la proiezione. Durante una delle sere passate a vedere questi film, Robert fece notare a Tarantino che lui possedeva gli stessi poster di ‘Dragstrip Girl’ e ‘Rock tutta la notte’ e che dunque la passione per i cosiddetti ‘spettacoli doppi’ era comune. Rodriguez chiese a Tarantino,’Ho sempre voluto fare un doppio spettacolo. Hey, perché tu non ne dirigi uno ed io l’altro?’ e Tarantino rispose velocemente ‘Ci sto, lo chiameremo Grindhouse’”.

E dunque si parte con il primo episodio di Tarantino: “A prova di morte” (“Death Proof” nella versione americana). E la considerazione immediata che la pellicola stimola allo scorrimento dei titoli di coda è: “costui è un pazzo”. Quentin è un folle bastardo che fa con la cinepresa, e ancor prima con la penna, ciò che vuole. Propone “magheggi” tra inquadrature sporche, sporchissime ed altre che sembrano tenute su dal padre eterno. Mescola, pasticcia, cuce pezzi di splatter, pulp, b-movie “settantiani” con inseguimenti, stuntmen e giri di motore.

E poi, tira fuori dagli attori il diavolo che c’è in loro. Vedere per credere la grande interpretazione mascellare di un “marcio” e psicopatico Kurt Russell, ma anche quella dell’intera equipe di belle donne – capitanata da Rosario Dawson – che sfoggiano la loro femminilità, la esaltano a colpi di curve e magliette strette, ma poi la sotterrano prepotentemente tra una scolata di wild turkey e qualche aneddoto adolescenziale sul sesso. Tarantino scrive un film che dà una virtuale coppa alla sua carriera filmica sino ad oggi: l’autocitazionismo (e quindi autocelebrazione) infatti è quanto di più palese, come mai in passato.

Si notino: le continue inquadrature ai piedi nudi delle ragazze (vera e propria perversione del regista); l’auto gialla e nera stile Pussy Wagon in “Kill Bill”; padre e figlio (num. 1) balordi sceriffi texani; e certi tormentoni come il Big Kahuna Burger, le sigarette Red Apple e la suoneria del cellulare col fischiettio famoso di Daryl Hannah-infermiera bendata nel film del 2004. Ma soprattutto, il regista di Knoxville, riesce a stringere lo spettatore in una morsa con la realizzazione della grandiosa scena d’inseguimento ispiratagli dal film d’exploitaition “Punto Zero” (stessa musica, stessa Dodge Challenger R/T bianca del 1970), ma qui proposta col binomio tarantiniano drammaticità + spasso.

E certo, poi, l’elemento determinante (e sempre significativo in Tarantino) è il talento assoluto di Quentin nel creare dialoghi chilometrici che tamponano il buon senso e che nascono dallo scontro tra ovvietà e miracolo espressivo. Sceneggiatura che questa volta ha richiesto uno sforzo in più, al regista, nell’esercizio della scrittura al femminile. “Un film di dialoghi” lo si potrebbe ribattezzare, e non è affatto una definizione ovvia così come potrebbe sembrare. No, non ci siamo dimenticati della trama, il fatto è che non c’è.

Riccardo Marra

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